Recensioni - Cultura e musica

Mantova: Tre grandi interpreti per un viaggio nel repertorio del trio per clarinetto

Tommaso Lonquich, Umberto Clerici e Claudio Martinez Mehner in un ampio programma, da Mozart a Widmann al Teatro Bibiena

 

I primi due sono presenze pressoché abituali nella vita musicale della città, protagonisti di appuntamenti entrati nella memoria collettiva del pubblico; il terzo non vi ritornava dal 1995, quando, due anni dopo la vittoria al Concorso “Ciani”, aveva tenuto un recital che ne annunciava il talento ormai consacrato agli onori del concertismo internazionale. Tommaso Lonquich, Umberto Clerici e Claudio Martinez Mehner, trio di giovani quanto già granitiche eccellenze, si sono ritrovati lo scorso 8 novembre nello scrigno fatato del Teatro Bibiena di Mantova per una serata di alto camerismo, svettante per intensità nel fitto cartellone di Tempo d’Orchestra. Solisti di razza, tutti, dal temperamento quanto mai differente ma, per molti versi, capace di sorprendenti punti di convergenza nel disegnare profili ora scultorei ora più svaporanti, i tre strumentisti hanno dato vita – a malincuore, diciamolo: di fronte ad una platea in cui spiccava qualche vuoto di troppo – ad un’autentica danza di sguardi, di scambi, di serrata complicità giocata sul terreno di pagine tra le più illuminanti della letteratura cameristica di sempre.

Un viaggio avventuroso che vedeva nel mozartiano Trio K 498, conosciuto come “Trio dei birilli”, il primo approdo ma che si snodava libero, ardito, emotivamente toccante, lambendo i territori scoscesi e (apparentemente) lontani di Beethoven e del contemporaneo Widmann, sfociando infine nel mare dell’ultimo Brahms. A dare colore ed identità al dipanarsi del percorso, di stanza in stanza, era il clarinetto vellutato di Lonquich, raffinato tessitore di una trama di ricercata filigrana; nel segno del più caldo ed affabile dei legni, d’altronde, era l’atmosfera dell’intero concerto, in esplicito omaggio ad uno strumento a cui nel corso dei secoli, i grandi compositori hanno sempre più guardato come intrigante soggetto di possibili avvincenti dialoghi, all’ombra dei più impettiti archi che nella produzione cameristica giocano la carta di assi pigliatutto. Lo fa il trentenne Mozart per accendere di sincera affabilità, come in un vero e proprio ritrovo tra amici, le olimpiche geometrie di una creatura volutamente “minore”, nell’ampiezza e nel piglio; lo farà il Brahms dell’op.114, quello delle ultime parole che, chiusa nel cassetto la stagione delle opulenze sinfoniche, sembra ripiegarsi verso una dimensione più strettamente personale, intima, dove sono i silenzi, il mormorio della natura, l’improvviso turbamento di un ricordo, ad occupare il centro della pagina.

Lonquich oggi è artista totale: curioso, raffinato, proteso a sinergie e ai linguaggi più disparati; lo abbiamo visto crescere negli anni, questo figlio nobile di un padre artisticamente ingombrante come l’immenso Alexander, interprete sconfinato a cui l’Orchestra da Camera della città ha indissolubilmente legato il proprio destino; ne abbiamo accompagnato con ascolti e applausi interpretazioni sempre più alte ed ispirate. Qui, era soprattutto con il vertice costituito dal violoncello di Umberto Clerici che l’interazione del clarinettista sembrava sciogliersi in un sottile, intrigante gioco delle parti fatto di naturalezza e complicità. Meno stringente, invece, era lo scambio con il pianoforte puntuale ma non altrettanto autorevole di Martinez Mehner, regista più attento al dettaglio che alla visione d’insieme dell’azione, spesso poco efficace nel cogliere e subito rilanciare gli spunti di quel fitto damasco di bellezza che del camerismo è l’essenza. Mozart, appunto, con la sua allure fresca e vagamente campestre da cui affiorava, ninfea da uno stagno di bellezza, il Minuetto centrale; ma soprattutto il Beethoven ancora intinto in giovanile, scalpitante tensione vitalistica del Trio op.11, pagina luminosa e strumentalmente ardua, soprattutto per il pianoforte a cui, come accade nei primi gruppi di Sonate, vengono chieste autentiche prodezze rifilate in punta di fioretto. All’altro capo dell’itinerario d’ascolto stava, estremo approdo dello straordinario sforzo costruttivo beethoveniano, la tinta scura, meditativa, punteggiata da improvvise vampate di drammatico vigore, del Trio brahmsiano, naturale epilogo di una serata che, per densità emotiva e proposta d’ascolto, poteva quasi dirsi un ideale assaggio di Festival di primavera, quando, tra la fine di maggio ed i primi giorni di giugno, Mantova diventa capitale della musica con il suo miracolo multisensoriale di Trame Sonore.

Ma il momento più ispirato della serata, il più alto per densità e resa esecutiva, era la notte profonda, punteggiata di misteriose presenze e di arcani silenzi, che Jörg Widmann evoca nel magnifico Nachtstück, lapidaria riflessione sulla vita, sul tempo, sul mondo che ci avvolge. Un fondale nero in cui ogni contorno sembra smarginarsi, disorientante ed ipnotico, sulla cui parete anche le eruzioni di improvvise colate laviche si raffreddano, inermi, all’affiorare dei dodici rintocchi con cui il pianoforte annuncia, senza appello, la mezzanotte.