Recensioni - Cultura e musica

Mantova: Vadym Kholodenko mattatore a Tempo d'Orchestra

Il pinista ucraino in un trascinante concerto con l'Orchestra Regionale della Toscana diretta da Andrea Battistoni

Le mani così piazzate sulla tastiera da sembrarvi incollate; solo un gioco di dita – dita iperestese, da illusionista – a rompere la maschera impassibile dell’apparente immobilità. Gesti impercettibili, sufficienti a scatenare tempeste perfette. Vadym Kholodenko è l’ultimo grande erede di una scuola russa pre-glaciale, il testimone solitario di un’era estinta. Lo scorso sabato 2 aprile al Teatro Sociale, ospite della rassegna mantovana di Tempo d’Orchestra, è stato lui il mattatore di una serata che lo ha visto solista a fianco dell’Orchestra Regionale della Toscana diretta da Andrea Battistoni; solista, ma anche condottiero spavaldo, cavaliere solitario poco incline ad assecondare chi lo accompagna. Nella Rapsodia su Tema di Paganini di Rachmaninov – pagina che, insieme ad altre, ha contribuito a farne un interprete leggendario – il trentaseienne pianista originario di Kiev si è mosso con l’istinto di un autentico predatore, trascinando e più spesso strattonando la compagine sotto l’imperioso comando del suo passo, accendendo la pagina di una luce livida e oscura, percorsa da un fremito tragico che una palette di colori squillanti su fondo nero non faceva che rendere più inquietante. Un saggio di smagliante vitalismo strumentale, squadernato con l’usuale sorniona asciuttezza che ne caratterizza la cifra: una lettura granitica, come sempre giocata in un controluce che, anziché l’impianto sontuosamente retorico, ne esaltava l’anima sofferta, l’armatura ferrea e nuda, l’intimismo di uno scavo continuamente volto alla sottrazione.  Niente velluti, nessuna indulgenza. Un Rachmaninov che era nervo e muscoli, pianto segreto, rabbia e sfrontata, selvatica bellezza, riottosa a mostrarsi anche quando, nella sezione centrale, giunge il tempo del lirismo, dell’indugio, e dagli archi dell’orchestra si muove il vento della reminiscenza. Qui puntualmente ci si aspetta il dilagare di una confessione che tocca il culmine dell’emotività e si fa abbraccio. Kholodenko invece ancora una volta si schermiva dietro un canto imbrigliato, nascosto, nostalgicamente celato in piani sonori mai davvero deflagranti, risparmiando il guizzo per la raffica delle variazioni conclusive, infilate una via l’altra con l’allure del fuoriclasse. Di fronte a tanta caustica autorevolezza, l’orchestra stava a ruota, assecondandone con buona duttilità il racconto ma afferrando solo a tratti quella piena compenetrazione che caratterizza il serrato dialogo con lo strumento solista.

E in una serata di trame che vedevano intrecciarsi la Russia e l’Italia – al Rachmaninov della Rapsodia avrebbe fatto eco un opaco Stravinsky de L’Oiseau de feu, a chiudere il cerchio – era il delizioso Divertimento per Fulvia op. 64 di Alfredo Casella ad aprire il sipario. Una pagina dal sapore infantile e avventuroso, straripante di barbagli rubati alla Francia début de siècle - tra Ravel e Stravinsky, tra ricercati preziosismi timbrici e ardite soluzioni armoniche – ma scaldati al sole italico. Una scoperta dell’alfabeto e del mondo in cui la sapiente strumentazione rievoca trenini, marce di soldati, boschi labirintici, scomposto divertimento, anse di irriducibile noia. La vita attraverso lo guardo irriverente e straordinariamente curioso di un bambino, filtrato a sua volta dalla disillusa concretezza dell’adulto. Battistoni, con l’ardimentoso approccio che già lo aveva contraddistinto nei suoi primi esiti, forte di un’esperienza maturata in questi anni attraverso molteplici quanto eclettiche esperienze in ambito internazionale, ha saputo cogliere, in questo mosaico di umori, la chiave leggera eppure intensa di divertissement affettuoso, pescando tuttavia, attraverso un gesto sempre eloquente, solo le prime profondità di una così sapida scrittura.

Un’Italia magica, come lo è quella, decisamente più intimista, ripiegata sulle tinte di una pagina di grande effetto, del primo Notturno op. 70 di Martucci, ultimo tassello di una serata vivamente applaudita dal pubblico in sala, per la quasi totalità over 60. Una domanda: ma dove sono i tanti studenti, di oggi e di ieri, del Conservatorio? Che ne sarà di una città che non sa raggiungere con la qualità delle sue proposte musicali il vivaio delle prossime generazioni e catturarlo nell’inguaribile vizio di correre ad aggiudicarsi una poltrona a teatro?