L'opera giovanile di Arnold Schönberg nella versione per trio con pianoforte eseguita da Leonardo Zunica, Paolo Ghidoni e Andrea Cavuoto
Scotta ancora, ad oltre un secolo di distanza dal suo controverso debutto, la scandalosa bellezza di Verklärte Nacht. La sua materia densa, turbinosa, ribollente sotto il manto dell’austera armatura. Nel 1899, l’op.4 di un giovane Arnold Schönberg aveva animato la placida serata viennese nella sala piccola del Musikverein, facendo volare parole grosse e creando quello scompiglio che, di lì a poco, a Parigi, sarebbe dilagato in vero e proprio furore, in occasione del Sacre stravinskiano.
Nessun dissenso, invece, la scorsa domenica 23 aprile, nella cornice di Palazzo Te, a chiusura di un’intensa due giorni interamente dedicata al capostipite della Seconda Scuola di Vienna. Tanti applausi ad accogliere un capolavoro che, se possibile oggi più di allora, ci conduce nel fitto del suo mistero senza tuttavia svelarne appieno le stanze. Autentica porta sul Novecento con le sue armonie lussureggianti, dolorosamente aggrovigliate, con l’arcata del suo canto dolente e allucinato, la notte trasfigurata che Schὂnberg attinge dal mondo di Dehmel viveva, nella restituzione voluta dal Direttore Artistico di Eterotopie, Leonardo Zunica, per l’occasione impegnato anche nella sua primigenia veste di esecutore, nella versione per trio con pianoforte realizzata da Eduard Steuermann. Dalla originaria, per sestetto d’archi, alla più sontuosa, firmata dallo stesso Schὂnberg per orchestra d’archi, la fine operazione di sottrazione lasciava qui affiorare, ancor più chiara, la straordinaria, carbonizzata sinopia di un incendio divampato e ridotto a pece. L’articolazione tesa, serrata, degli strumenti, impegnati a restituire nelle rispettive cordiere un intero mondo sonoro ma anche drammaturgico, trovava in Zunica, ben affiancato da Paolo Ghidoni al violino e Andrea Cavuoto al violoncello, i passi scanditi in un buio che era già tinta, presagio, simbolo. Un mondo di quinte vuote, disabitato, che ben presto si apre al racconto, ad un dire esaltato e procedente non per piani lineari ma, al contrario, per assalti turbinosi, sussultori sulla spinta dei quali i demoni, fino ad allora dormienti, si risvegliano.
La lirica, sulla cui sonorità Schönberg costruisce il reale capolavoro di mimesi, allude a due persone, un uomo e una donna, insieme, di una confessione d’amore da parte della donna, incinta di un figlio altrui. Qui la musica sembra arrestare il battito. Potrebbe essere un dilagare distruttivo, una tempesta che annienta. Invece l’uomo, a sorpresa, promette amore alla donna e alla sua creatura, e la musica svapora, sublimata, verso il cielo e il silenzio, un silenzio questa volta di riappacificazione. Tre soli strumenti, sufficienti a proiettare l’ascoltatore, già ben avviato dalle illuminanti parole tracciate da Alessandro Maria Carnelli – della pagina schὂnberghiana fine conoscitore - verso quello straordinario bosco emotivo tutto turbamenti, vampate, dirupi, con il pianoforte a fare da fondale, opalescente e magmatico, vortice di rarefazione e di condensazione del discorso musicale. Nell’essenzialità di mezzi, per certi versi era ancor più evidente l’estrema audacia dell’operazione osata da Schönberg in un mondo di frontiera tra il non più e il non ancora: le screziature, le colate di una materia tutta grumi di sofferenza, incrostazioni di una bellezza divenuta graffio, fattasi urticante urgenza ma anche leggiadro corteggiamento, lieve carezza, acquatica rimembranza. Di lì a un attimo, sarà il tempo di Pelléas e Mélisande. Altri mondi, altri destini. Ma la stessa inconfessabile appartenenza, lo stesso anelito. A volte, come in questo caso, il profumo della musica inizia dall’impaginato, a strumenti ancora chiusi. “Sento l’aria di altri pianeti”. Non era solo il motto del weekend schonberghiano ma l’idea stessa di una proposta culturale che, lungi dal lisciare il pelo al pubblico, intende creare e animare come pochissime altre in Italia un dibattito sul e attorno al fare musica. Così cresce un pubblico e, con esso, una città.