Recensioni - Cultura e musica

Mantova: la raffinata eleganza di Isabelle Faust e dell'Orchestra da Camera di Mantova

Al Teatro Sociale per il secondo appuntamento di Tempo d'orchestra

È “eleganza” il termine che ci siamo trovati a pensare più spesso durante il concerto che, lo scorso sabato 6 novembre, ha contraddistinto il secondo appuntamento mantovano di Tempo d’Orchestra. Una grazia mai ingenua ma al contrario consapevole, pensante, sottilmente critica che ha accompagnato come un filo rosso l’intero snodarsi della serata, una delle più attese del cartellone. Sul podio dell’Ocm, in un Teatro Sociale che tornava a sfiorare il tutto esaurito dopo la cappa nera dei mesi passati, saliva Olari Elts a regalare alla compagine di Carlo Fabiano il nitore di un gesto capace di plasmare la musica e trasformarla in racconto. Un tratto vivo che da subito interrogava la pagina, l’afflato dolente che contraddistingue la Musica funebre massonica che un Mozart già affacciato sulle ombre del Requiem scrive nel 1784, l’annuncio (un po’ sfocato) dei fiati andava a risvegliare il sospiro mesto degli archi e con essi la faticosa, catartica salita dall’oscurità alla luce della conoscenza, a quel Do maggiore che nella perfezione della sua certezza adamantina indica l’umana vittoriosa compiutezza.

Dall’altro capo del filo stava Haydn il patriarca con la sua Sinfonia n°104, meglio nota come London, ultima del fortunato grappolo di dodici scritte per il pubblico d’Oltremanica: tre pannelli introdotti da un breve Adagio che il direttore estone si divertiva ad esplorare stanando, sotto l’arcata di una scrittura inappuntabilmente coerente, le irregolarità, le asimmetrie, il gioco ardito di licenze che Haydn dissemna come briciole di un percorso segreto, a firma di un magistero di sapienza che può permettersi qualunque scelta, gabbando con signorile sornioneria le attese dell’ascoltatore. Il passar di mano dei materiali, nell’Andante centrale, che si rincorre tra le sezioni, in una variazione pervasiva e spiraliforme, la leggiadra bellezza del Trio che irrompe, con il suo battito d’ali, nel Minuetto e ne cambia il colore, la rustica gioiosità del vitalistico movimento finale, con i suoi echi attinti dal folklore croato.

Al centro, a rapire con una classe da semidivinità – un concentrato di poesia, umanità, sublime naturalezza del dire – era il violino fatato di Isabelle Faust. Sul leggio, la tela del Concerto funebre per violino e orchestra di Karl Amadeus Hartmann, la pece delle sue tinte fosche, l’aspra bellezza del suo canto avaro di vibrato, cetra appesa alla vista di un dolore che ammutolisce. Pochi altri sanno accostarsi alla voce di questo testimone eroico degli orrori del suo tempo, pochi ne osano penetrare il groviglio spinoso di una scrittura estrema prestata a restituire lo sguardo asciutto, impietosamente lucido, che proprio il disincanto eleva a poesia. La Faust, con un fraseggio che indagava la corda, sul fiato, a cercare un suono straordinariamente plastico, proteso sui troppi “Warum” annidati in questo affresco, ne percorreva il corso, dal monologo interiore, esitante, dell’inizio al fuoco dell’indignazione che avvampa nel secondo quadro e si fa fiera resistenza, accusa, rivendicazione. L’atto fondativo di un’umanità ferita e caparbia – individuale e collettiva, una sola moltitudine – a difesa di una suprema, inviolabile bellezza. Il canto della Faust consegnava, trepidante come non mai, imperitura nel valore del suo messaggio, la parola di Hartmann: non chiudere gli occhi, non abbassare la testa, raccontare come unica, sola possibile vendetta. E lei, con il suo Stradivari Bella Addormentata, era arco negli archi, voce nel brusio del mondo, afflato sottile, elevato a trovare, tra pulsare ossessivo e silenzi siderali, una breccia di luce e di verità prima di spegnersi per sempre, nel paesaggio desolato delle battute finali. Per aspera ad astra. Eleganza allo stato puro.