Recensioni - Cultura e musica

Mantova: successo incondizionato per il festival Trame Sonore

Grande successo di pubblico per la nona edizione della manifestazione promossa dall'Orchestra da camera di Mantova

Il sogno di Lodovico II. Il suo manifesto politico, realizzato in fretta e furia per stupire, in quel cruciale 1459, Papa Pio II e con le più alte rappresentanze europee, chiamate – in una sorta di G8 ante litteram - a fare il punto su mille questioni, prima su tutte sugli equilibri del Continente rispetto all’incombente minaccia turca. Un tempo irripetibile, quello, quando la città era, dentro e fuori dal palazzo, un cantiere infinito, un laboratorio di ardita creatività animato dai sommi intelletti dell’Umanesimo. Da allora, Mantova è lentamente sprofondata in un sonno plurisecolare, scosso senza troppa convinzione dai sussulti di una storia che a più riprese ne ha sfiorato i confini senza mai tuttavia scuoterla dal suo pur raffinato torpore. Un magnifico gioiellino di un’Italia minore, appartata, operosamente relegata in una provincia da cui tutto ciò che gira veloce sembra lontano. Eppure, paradossalmente, è questa sua bellezza intatta, silenziosa, vagamente metafisica, di creatura di confine tra terra ed acqua, tra un non più ed un non ancora, che l’ha resa cornice perfetta per progetti capaci, negli ultimi anni, di restituirne l’incanto a sguardi sempre più affascinati.

Festivalletteratura? Non solo, non proprio. Piuttosto, “Trame Sonore”, spregiudicata operazione di sperimentalismo d’alto manageriato musicale nata come giocattolino da una costola dell’Orchestra da Camera di Mantova e nel giro di una sola stagione divenuta un appuntamento irrinunciabile, tanto da far ombra alla più ampia Stagione di “Tempo d’Orchestra”. La nona edizione si è conclusa lo scorso 2 giugno, come da tradizione un ultimo abbraccio dopo quattro giorni a perdifiato chiamato a salutare ma soprattutto a rilanciare l’appuntamento al prossimo anno, quello del primo Festival a due cifre. Il 2022 sarà infatti l’annata numero dieci, segno inconfutabile di un passaggio di boa, e al tempo stesso di nuove sfide da porsi. Nella cornice di piazza Santa Barbara, il cortile privato della città-palazzo, dove armi e preghiere si fondono in un tripudio di rinascimentale eleganza, il Direttore Artistico Carlo Fabiano ha invitato il pubblico a disegnare insieme il prossimo Festival, in una sorta di progetto compartecipato perennemente teso in avanti. “La musica da camera ci insegna a vivere, a dialogare, ad incontrarci. Viviamola come un pretesto per immaginare i contorni del mondo che insieme vogliamo costruire”.

Un mondo, questo, nato quasi per caso, nel 2013. Tre giorni miracolosi, tra fine maggio ed inizi giugno, piovuti a ciel sereno sulle secche di mesi in cui tutto solitamente tace, in vista della stagione autunnale. Tre giorni per dare il polso di un bisogno, di una necessità, individuale e collettiva, di riformulare il momento della fruizione musicale, degli spazi, dei tempi di ascolto, del rapporto con lo spazio della scena e con la distanza tra pubblico ed interprete. E a questa roboante chiamata alle armi di un pubblico che aveva letteralmente preso d’assalto la proposta, Mantova la placida aveva risposto aprendo l’incanto delle sue sale alla musica, invitandoci tutti ad assaggi di un autentico giardino di delizie; il Ducale, tra corte vecchia e nuova, ma anche la millenaria pietra nuda della Rotonda di S. Lorenzo, per ascolti da snocciolare nel raccoglimento di una meditazione, e, seguendo il percorso del Principe, via di corsa verso i margini della città, verso l’oasi opulenta, tra eroismo e sensualità, di Palazzo Te. Itinerari da cucirsi addosso, trame da seguire ed inseguire, in un gioco che ha nelle condizioni il pur avvincente pedaggio di uno smarrimento, di una rinuncia rispetto all’impossibile tutto, di una scelta tra piacere e piacere. Nove edizioni dopo, le Trame di questo raffinato ludus sono ancora qui, a dispetto di un tempo incancrenito da un silenzio che ci aveva portati quasi a dimenticare l’irrinunciabile rito di ritrovarci seduti attorno ad un medesimo ascolto. Un’annata, questa, privata del concerto conclusivo di ogni folle journée, per ragioni di coprifuoco, e necessariamente ridimensionata nei numeri del pubblico ammesso, nel rispetto delle norme di sicurezza vigenti. Ma - e non a dispetto di questo ma piuttosto in nome di questo -  ancor più eroica, più intensa, più commovente di ogni altra.

Nata in mezzo alle schioppettate, negli incerti di decreti continuamente mutanti, con il bollettino dei dati a dare il polso di una tela da fare e disfare, all’infinito. Ci hanno creduto, Carlo Fabiano ed il suo staff di donne strepitose, agguerrite come soldati, capaci di reggere a ritmi di lavoro estenuanti per offrire a tutti, artisti, pubblico, addetti ai lavori, il meglio del meglio di quest’esperienza multisensoriale. E ci ha creduto la Mantova della politica e dell’imprenditorialità, che è scesa a difesa di questo miracolo di provincia investendo sulla possibilità di questo azzardo. Il tempo quasi estivo di questa fine di maggio baciata dal sole e da temperature finalmente clementi ha fatto il resto, regalando all’ascoltatore itinerante l’incanto di una città da vivere dall’alba alla notte, di fronte a cui mettersi in ascolto e grazie a cui ritrovare se stesso, pronto di nuovo a misurarsi con gli interrogativi di pagine senza tempo. Tanti fili di un’immaginaria ragnatela, ideale set per intrecciare più vicende contemporaneamente. “Una gigantesca multisala”, l’ha definita Fabiano, “in cui abbiamo voluto proiettare visioni diverse e sinergiche, itinerari sovrapposti, occasioni multiformi”. Diciotto trame da assecondare, o da spezzare a piacimento, rammendandone a loro volta i capi con altre trame in cui, ad attendere l’ascoltatore, erano 250 artisti. Giovani promesse delle Accademie, giovani formazioni già proiettate verso il concertismo accanto a nomi eccellenti, ed in molti casi ricorrenti, qui a Mantova, del panorama internazionale.

Su tutti, quello di Alexander Lonquich, gigante assoluto capace ogni volta di catalizzare attorno a sé un cerchio magico di comprimari con cui, puntualmente, edizione dopo edizione, dar vita a piccoli miracoli di pura vertigine. Ascolti di trenta, quaranta minuti l’uno, che da soli valgono abbonamenti ad intere stagioni. È lui il genio di corte, l’ingrediente di una segreta lievitazione, in questa Mantova postmoderna che ritorna ad abitare da protagonista i luoghi della sua imperitura grandezza, reinventandoli. Acuminato indagatore, con il violino sapido di Nurit Stark, della “Grosse Sonate” op. 121 di Schumann, percorsa con tratto nervoso attraverso i suoi abissi; sagace bussola capace di condurre l’ascoltatore attraverso il sarcasmo appuntito e velenoso del “Carnaval des animaux” di Saint Saëns, dopo averlo disarmato con una lettura della Sonata op. 90 di Beethoven di rara trepidazione, in cui affiorava, controluce,  la gioia domestica, pudica, luminosa, degna di un Ländler schubertiano; e ancora, ipnotico incantatore nel dipingere i mondi vicini e lontanissimi di Fauré e Debussy insieme al pungolo offerto dal violoncello di Vashti Hunter, ma soprattutto immenso traghettatore, accanto agli archi strepitosi di Barnabas Kelemen, Jonian Ilias Kadesha, Katalin Kokas e Nicolas Altstaedt, nel Quintetto con pianoforte di un giovane, inedito Bartók: un racconto ramingo, dal lirismo solo sfiorato dalle asprezze di ciò che sarà il suo tratto identitario.

Così via, di frammento in frammento fino al gran finale, alle prese con lo Schumann del Concerto op. 54 che Lonquich spogliava di ogni orpello rapsodico e bizzarro, restituendolo ad una visione più meditata, al riparo dalle burrasche che spesso ne assalgono le linee e ne ovattano il serrato dialogo di un’essenza più interiorizzata. Sotto la sua sollecitazione di solista e direttore insieme, l’Orchestra da Camera di Mantova veleggiava sicura, ispirata, plastica. Senza Lonquich, “Trame Sonore” non sarebbe, o non sarebbe ciò che è. L’alchimia tra la città e l’interprete in assoluto più libero dalle logiche del sistema ha acceso una scintilla che si è via via propagata fino a diventare incendio. Quest’anno, la sorpresa più eclatante è stato il violino di Kelemen, che nella serata inaugurale, guidato dalla sempre elegante bacchetta di Umberto Benedetti Michelangeli, ha scolpito con regale autorità e suono brunito il Concerto op. 61 in si minore di Saint Saëns per poi sciogliersi in un dedalo di altre apparizioni nelle più disparate compagini. Ma, in una formula che piace per primi agli artisti, a riaccendersi, rintuzzato, è stato anche il fuoco di graditi ritorni: quello di Altstaedt, appunto, imperioso narratore alle prese con il Bach della quinta Suite per violoncello solo, e di Danusha Waskiewicz, viola vellutata ed intimamente selvatica. Un Bach meno muscolare, il suo, ma dall’articolazione ariosa e finissima, culminato nella finale Ciaccona in cui alla voce dell’arco si aggiungeva, preghiera nella preghiera, quella del canto. E, nelle sale di Palazzo d’Arco, in cui, nell’inverno del 1770 un Mozart ragazzino aveva trovato ospitalità sulla strada per Milano, a riaffacciarsi al pubblico virgiliano era l’incanto del Quartetto Hermès, giunto a punzecchiare, divertito, l’umorismo sottile di Haydn, prima di tuffarsi, nella Sala dei Fiumi in Palazzo Ducale, nelle ben più scure tinte di Janaceck. Dall’ultima volta in cui li avevamo ascoltati è trascorsa solo una manciata di mesi e rieccoli, alati come sempre, ma con una sfumatura più saggia, meno vitalisticamente mordace, forti di un equilibrio ormai compiuto. Con questa cifra, i quattro archi accoglievano tra di loro, finendo per travolgerlo, il pianoforte garbato ma un po’ troppo rinunciatario di Andrea Lucchesini, per un Quintetto di Schumann a cui mancavano le tinte estreme e le brucianti domande. E, di quintetto in quintetto, magistrale era invece l’equilibrio di sorvegliata strumentalità, serrato dialogo tra le parti, smaltata individualità, che gli archi dell’Arod sfoggiavano con il pianoforte olimpico di David Kadouch. Sul leggio, Saint Saëns, con le rapide di una scrittura sovrabbondante e maestosa, poggiante tuttavia sui tiranti di un severo contrappunto. Come anche per altri appuntamenti, ad immortalare l’esecuzione era l’apparato di registrazione inviato dal Palazzo Bru Zane di Venezia, da sempre sentinella attenta del patrimonio musicale francese nonché raffinato dispensatore di produzioni in cui fruizione e ricerca si intrecciano a doppio filo.

Briciole, queste, di un racconto che è impossibile dipanare per intero in quanto il qui e l’altrove coincidono sempre, costringendoci ogni volta, ahinoi, ad una rinuncia. Da tempo non ci trovavamo catapultati nella febbrile atmosfera di una città che risuona di bellezza, una bellezza fugace da cogliere tra un luogo e l’altro. Dentro le sale, il silenzio raccontava l’attesa, la gioia, il desiderio di ricominciare ad esserci, finalmente di nuovo a casa. Fuori, fragorosi, i segni della la vita che ricomincia: la città brulicante di persone, il ritorno di tavoli apparecchiati nei ristoranti del centro, dove musicisti, giornalisti ed inguaribili musicomani sedevano in allegre tavolate. Un piatto di specialità locali e poi via, di corsa, ad acciuffare e condividere altre emozioni. Un Festival, ma soprattutto il rinnovato rinascimento di una città.