
Un coreografo che istruisce il mondo
C’è chi va a teatro per emozionarsi, chi per sognare, chi per capire meglio il mondo attraverso l’arte. Le coreografie di Maurice Béjart fondono tutte e tre le cose insieme. Il suo linguaggio unisce la potenza del gesto al pensiero filosofico, il corpo alla musica, la tradizione alla provocazione. Quando si assiste ad una coreografia di Béjart si ha la sensazione di partecipare a qualcosa che va oltre lo spettacolo: non è solo arte, non è solo tecnica, è un atto spirituale.
I titoli di Maurice Béjart messi in scena al Teatro Regio di Parma portano sul palcoscenico un’idea potentissima: la danza come forma di elevazione sotto ogni punto di vista. In un’epoca in cui religione e arte sembrano procedere su binari separati, Béjart costruisce ponti, recuperando il linguaggio originario del corpo come veicolo di trascendenza. Le sue opere – come la celeberrima Bhakti, ispirata all’induismo, fino alla celebre Messe pour le temps présent – sono un continuo dialogo con la dimensione invisibile. Béjart non si limita a rappresentare la spiritualità, ma la coreografa e usa il corpo come un alfabeto rituale, capace di dire l’indicibile. Non a caso, molte sue creazioni evocano riti antichi, mitologie, testi sacri, filosofie di ogni genere.
La serata del Regio ha preso il via con tre passi a due rispettivamente su musiche tradizionali islamica, africana ed ebraica a testimonianza che nella scelta della religione “Non è importante quale, basta sceglierne una” (Maurice Béjart).
Duo, estratto dal balletto Pyramide-El Nour presentato per la prima volta il 17 maggio 1990 all’Opera del Cairo, è un balletto eseguito su musica tradizionale islamica e riassume la personalità del coreografo: linee pure, accademici che ricoprono i corpi come una seconda pelle, colori usati con decisione, intrecci di gambe e braccia che parlano.
In Heliograbe (1976) affiorano le radici africane di Béjart. Nel percorso artistico del coreografo questo balletto viene considerato una delle sue creazioni iconiche. Il titolo richiama suggestioni mitologiche e solari e l’opera sembra esplorare la tensione tra creazione e distruzione, luce ed oscurità, spiritualità e materia. I movimenti sono ampi, ed i danzatori sembrano muoversi come parte di un insieme cosmico. L’elemento maschile è centrale, ma nulla può senza il suo opposto: i corpi si confrontano, si sfidano e si fondono, esprimendo tensioni interiori e collettive.
Un esempio potente è anche Dibouk (1987), ispirato alla leggenda ebraica del dybbuk, lo spirito inquieto che si impossessa di un vivente. In questa coreografia, Béjart mette in scena il conflitto tra corpo e anima, tra desiderio e legge, tra visibile ed occulto. È un’opera che parla di esilio interiore, di spiriti che non trovano pace, ma anche di purificazione, come un antico esorcismo in forma danzata. Dibouk ci ricorda che la spiritualità non è sempre luce e armonia: può anche essere turbamento, lotta, ricerca dell’unità perduta.
L’ultimo pezzo prima della pausa è stato l’Uccello di fuoco (1970). Béjart rilegge la travolgente partitura di Igor Stravinsky trasformando il mito in un simbolo di rivolta e rinascita senza tutù e senza principesse: qui il protagonista è il popolo e la danza è un atto di liberazione. I danzatori si muovono come fiamme, con un’energia viscerale che trascina lo spettatore in un crescendo emotivo. È una coreografia che brucia, accende, scuote. Un inno alla forza collettiva, alla speranza che nasce anche nel buio.
Con “Sette danze greche” (1986) cambia l’atmosfera, ma non la profondità del messaggio. Con questa coreografia Béjart rende omaggio alla cultura ellenica con rispetto ed amore. I gesti sono ariosi, i corpi pur in semplici body neri e calzamaglie bianche raccontano la festa, le onde del mare riecheggiano in sottofondo e l’umanità semplice e profonda delle isole greche è palpabile. I danzatori in pose ieratiche sembrano quelli delle figurine bianche su sfondo azzurro delle porcellane di Wedgwood. La Grecia dell’anima viene evocata con movimenti essenziali e linee pulite.
Perché Béjart non è solo danza: è filosofia in movimento, teatro senza parole, energia che passa da un corpo all’altro fino a raggiungere il pubblico. Che si tratti della passione dell’Uccello di fuoco o della grazia delle Danze greche, i suoi lavori parlano a tutti, anche a chi non ha mai visto un balletto in vita sua.
E che dire dei ballerini del Ballet de Lausanne se non che sono semplicemente straordinari: i corpi sembrano dei trattati di anatomia michelangiolesca e la tecnica è assolutamente impeccabile.
Sonia Baccinelli
Parma, 29 maggio 2025