Recensioni - Cultura e musica

Memorabile concerto di Bertrand Chamayou al Festival di Menton

Il pianoforte di maurice Ravel al coentro di una costellazione che ha visto tra gli altri Haydn, Borodin e Chabrier.

Non era tanto la dimensione sommativa a dare il senso totalizzante a quell’integrale dedicata ai 150 anni dalla nascita di Maurice Ravel, quanto la profondità dello sguardo affacciato sul suo abbacinante mosaico di tessere. Le dita di Bertrand Chamayou, interprete, lo scorso 31 luglio, di una serata che, al Festival de Musique de Menton è già un cristallo di storia incisa sul Parvis de la Basilique, custodiscono qualcosa che ha a che fare con l’assoluto.

Alchimista dispensatore di una tavolozza di colori accesi a fiammate e subito disciplinati in una strabiliante polvere luminosa fatta di infinite rifrazioni, scaglie, riverberi, sotto le sue mani, l’arco compositivo raveliano si piegava con strabiliante naturalezza, sciogliendo in folate di pura suggestione le vele del canto. E dalle sue trasparenze affioravano, come inclusioni nell’oro di un’ambra millenaria, voci e parvenze lontane, morte e immortalate nella gabbia fatta scrigno della pagina. Avevamo assistito alla stessa traversata, qualche mese fa, eseguita alla Philarmonie di Parigi. Ma qui, il dialogo con le opere, inanellate ad arte, a comporre un découpage non solo creativo ma, ancor prima, biografico ed esistenziale, si nutriva dell’impagabile valore aggiunto del luogo, la terrazza mozzafiato protesa dal borgo vecchio sul mare che, da 76 anni, fa del Festival un’esperienza multisensoriale. Una risonanza fatta di una visceralità che non trovava, in oltre due ore di musica, un solo istante di flessione; l’intimo parlarsi di un filo impercettibile, magico, annodava le note al vento, alla voce del mare, alla luce declinante che dal crepuscolo conduceva, ascolto dopo ascolto, verso la notte, alle pietre del sagrato ancora intrise del calore del sud.

Bastavano poche note del Prélude iniziale per trovarsi, in nuce, di fronte all’universo di Ravel. Lì la sua poetica, il suo immaginario erano già annunciati, nel gioco superlativo che Chamayou sapeva risvegliare dal cappello magico della sua stupefacente palette in cui abita la moltitudine di un’intera orchestra. Una strumentalità statuaria che, tuttavia, il pianista occitano sembrava tenere sobriamente a bada più che lasciar correre a briglia sciolta, lasciando evaporare, dalla pagina, i fumi di una scrittura sfidante e, non di rado, velenosa, per restituirne, nobilmente asciugata, distillata, una poesia fatta di canti sospesi, inquieti, interrotti e di nuovo echeggianti, in richiami lontani, in altrettanto lontani presagi. Magistrale, da questo punto di vista, era l’arazzo dei Miroir, a cui Chamayou regalava la dimensione quasi cinematografica dell’escursione in profondità, dello spazio espugnato e attraversato a colpi di luci, di ombre, di fraseggi sferzanti, fino a farsi tempo, pensiero e via via desiderio, rimpianto. Come nell’annunciarsi mormorante, secco, delle Noctuelles, farfalle evocate come ombre metafisiche, nel doloroso, sibillino presagio di Oiseaux tristes, l’inquieto, incalzante ondeggiare di Une barque sur l’océan, servito su arpeggi realmente acquatici, la spavalda Alborada del Gracioso, in cui il battito (ipnotico, quel ribattuto ossessivo, un graffio percorso da un brivido di elettrica vitalità, a solleticare il doppio scappamento dello strumento) si faceva ritmo e il ritmo colore. Un Midi accecante, intriso di fatalistica ebbrezza, incurante del precipizio su cui danza. Fino alla Vallée des cloches, con i rintocchi che si dilatavano nella sera, pervasivi, avvolgenti, ammantati di classicità.

Pochi come Chamayou sanno ascoltare, prima ancora che ascoltarsi, protesi sulla cordiera, ad auscultarne il respiro, a catturarne la cometa dell’incanto, il profumo di un passato indossato come un’armatura di imperitura eleganza, nel gioco dei contrappunti, nel gusto di armonie sofisticate e affacciato su un presente rivolto in avanti, verso vie nuove. Così il Menuet, così la deliziosa Sonatine, ad esso inanellata senza soluzione di continuità, una casa di bambola in cui maniera e guizzo, grazia ed estro, rilucevano di una luce vivida. E così il mirabolante trittico del Gaspard de la nuit, che chiudeva la prima parte del recital: svelato con parsimonia, assecondando la ritrosa voce di Ondine, accarezzandone la storia di slanci e di dolore, rispettandone la natura pudica, prima trattenuta e liberata solo nel torrenziale climax, prima di affidare il canto al tarlo sinistro di Le Gibet, trafitto dalle lame di chiaroscuro che ne rendevano ancor più incombente il richiamo ovattato, inesorabile, della nota ribattuta, e al rapsodico, imprendibile ghigno di Scarbo, ancor più vero, ancor più impressionante nell’effetto tridimensionale dato da un attacco del tasto in uscita, ad amplificare la risonanza; lo stesso, con quel levare alato, che avrebbe fatto della filigrana di Jeux d’eau un acquario ovattato dal filtro della nostalgia e  della galleria anticata delle Valses nobles et sentimentales una autentica enciclopedia di affetti. Valses di un’eleganza opalina, impeccabili eppure percorse di un segreto tratto di intima ribellione, grondanti di un desiderio mai pienamente assecondato, eternamente barcollanti tra esaltazione e amarezza. Sullo sfondo, lo sguardo al cigno schubertiano, alla danza come rivolta del pensiero, territorio franco di una libertà disegnata nel giardino immaginario della mente; ma anche l’omaggio agli amici e ai sodali di un cenacolo ideale; Haydn, Borodin Chabrier, il teatro dell’anima del barocco, nello struggente legato che si alzava stanco, come un volo radente su un cielo carico di pioggia, dalla Pavane pour une infante défunte, e Couperin, dedicatario del monumentale Tombeau, a sua volta rivolto ai compagni caduti nella Grande Guerra e qui scolpito con marmorea, sobria dedizione, seguendo e inseguendo la trama interna delle voci, dei contrappunti, di fraseggi capricciosi e, con essi, il gusto raffinato e intimamente malinconico per un mondo perduto. Quasi due ore e mezza di musica, suggellate dal pubblico del Parvis in standing ovation. Poi, a casa, con la consapevolezza di aver assistito ad uno dei concerti della vita.