Recensioni - Cultura e musica

Menton: Imprevedibile, originalissimo Malofeev

Il giovane pianista russo conquista il pubblico del Festival di Menton con un eclettico programma

La nostra prima occasione di ascoltarlo dal vivo l’ha fornita il Festival di Menton, storico cartellone con 74 anni di sontuosa tradizione alle spalle e quest’anno raggrumatosi in una decina di preziosi appuntamenti cuciti ad arte dalla direzione di Paul Emmanuel Thomas, nella cornice mozzafiato del Parvis de St. Michel Archange. Nella sala a cielo aperto arroccata, a picco sul mare, nel cuore del borgo vecchio della città, non più enfant ma ancora (e forse ancor più) prodige, Alexander Malofeev ha offerto al pubblico un recital di rara intensità, confermando una volta di più il suo miracoloso talento ma, ancor prima, regalando il coup de coeur della sorpresa e dell’azzardo. Angolazioni inedite e imprevedibili, soluzioni lontane da ciò che ci si aspetterebbe e, in più di un caso dissonanti rispetto alle attese, ma mai gratuitamente eccentriche, al contrario rivelative di un pensiero di granitica coerenza.

Lo ricordavamo in una prova del Concorso Čajkovskij di alcuni anni fa, quando ancora la sua strumentalità straripante finiva paradossalmente per oscurare l’incanto della musica, all’ombra di un’aria di apparente sufficienza con cui tutto o quasi veniva affrontato e risolto. Oggi, di quel ragazzino mostruosamente dotato e vagamente sbruffone rimane molto e al tempo stesso ben poco. I capelli biondo paglia, l’imperturbabile facilità a scalare qualsiasi parete, l’ipnotica padronanza evidente in un virtuosismo di altissimo profilo nel modellare ad arte i tanti fili della narrazione, della drammaturgia. Ma nel frattempo Malofeev è anche altro da sé. Un musicista sopravvissuto a sé stesso, attento a non farsi inghiottire, come ad altri è accaduto, dal demone della propria stessa sorte; impegnato, a soli 21 anni, nel pieno di una riflessione totalizzante, protesa su dimensioni che vanno ben oltre l’arte. Un artista coraggioso trasudante inventiva, immaginazione, ardimento, disincantata poesia. In cartellone, in un programma davvero singolare, avrebbe dovuto dividere la serata con Arcadi Volodos – a sua volta ex funambolo illuminato ed oggi incamminato verso un pianismo saggio, decantato, quasi ascetico. A seguito della cancellazione, in corsa, di quest’ultimo, lo spazio è stato interamente per il giovane russo, ultima perla della strepitosa classe di Sergei Dorensky, da cui sono usciti alcuni tra i protagonisti della scena musicale degli ultimi decenni: Lugansky, Matsuev, Kolesnikov, Tchaidze.

Una serata che Malofeev ha impaginato nel segno di scelte che già, da sole, dicevano l’artista: il sipario alzato con un Bach esponenziale, al cubo, trascrittore di Vivaldi e trascritto da Feinberg, e abbassato sulle note dell’Ouverture del Tannhaüser. Contaminazioni, passaggi di mano in mano, la musica come torrente impossibile da catturare, eternamente vivo, aggregante e ogni volta portatore di differenze, di prospettive. Il Concerto per organo vivaldiano, in questo gioco di rifrazioni, riluceva sontuoso nella tridimensionale sovrapposizione di piani sonori, nel respiro aereo, dilatato, di una lontana Venezia vista in controluce; e parimenti, la sacerdotale compostezza del corale wagneriano (Andante maestoso, alla lettera) avanzava, sinfonica, fiammeggiante, avvolta ma mai offuscata dal turbine dell’orgiastica esplosione strumentale impressa da Liszt. Tra questi due estremi (che incanto il clangore, le onomatopee, gli echi del terzo movimento bachiano, dopo la desolata introspezione dell’Adagio centrale) a sciogliere anche le ultime eventuali riserve era lo Scriabin struggente di due pagine per sola mano sinistra, una mano sinistra abitata da interi mondi. Peccato un suono leggermente sfuocato nella pronuncia, non ancora pienamente parlante, poco identitario.

Ma al momento Malofeev sembra, più che dall’estetica delle cose, letteralmente posseduto dall’urgenza di restituirne il senso, l’anima: la Sonata op.35 di Chopin, dopo un esordio pretenzioso, con un’agogica (apparentemente) estrosa che faticavamo a seguire pienamente, ci ha svelato appieno il mondo di questo straordinario talento. Lentamente, dopo uno Scherzo quasi kunderiano, schiaffo alle attese nel suo sghembo incedere, nel suo passo a tratti esitante, irregolare, ad affiorare era il macigno di una Marcia Funebre che faticheremo a dimenticare. Spogliata di ogni eroismo, di ogni apologia. Per sottrazione, con l’occhieggiare accennato ma rilucenze delle voci interne, fiori lontani tra un deserto di pietre. Un mondo opaco, disanimato, senza lacrime in quanto nessuno assiste a questo andarsene, seguito col solo sguardo nello spettacolo tragico, inesorabile, del suo passaggio davanti a noi, fino alla sua dissoluzione. Un realismo crudo e sliricato, degno del Bydlo musorgskijano e, più vicino a noi, delle inenarrabili pagine che la storia sta scrivendo con il sangue. Nello spegnersi di questo corteo – già avviato ad incontrare quello mahleriano, nel fitto del bosco – nessun cambio di pedale: via, dentro al turbine dell’ultimo movimento, la pagina, se possibile, più alta tra quelle già memorabili della serata.  Un mondo glaciale, attonito, su cui aleggiava il senso della fine, del vuoto senza rimedio, dell’ineluttabile. Un mondo a cui, retrospettivamente, sembrava guardare il Weinberg della sua quarta Sonata, folgorante groviglio di amarezza, di solitudine, di disincanto punteggiato da echi klezmer e più genericamente popolari, sincero, intimo omaggio ad una terra a cui, a soli 21 anni, Malofeev guarda con amore e intimo senso di lacerazione. Al termine del concerto, a ringraziare gli applausi di un Parvis infuocato, tre fuori programma, a completare il periplo nel mondo russo: una pagina del prediletto Medtner, la Toccata op.11 di Prokofiev e, a suggello, il Passo a due da Lo Schiaccianoci di Čajkovskij.