“Le prince du piano” in un raffinato concerto al 71° Festival de musique
Una palette timbrica non amplissima ma che, quando si inoltra nel sottobosco delle tinte medio-tenui, si fa lussureggiante giardino incantato, spettacolo fugace di colori e linee stese con gesto asciutto. Per sottrazione, giocando con la luce ed il suo infinito palpitare, anziché gonfiando l’arco della frase alla ricerca di roboanti seduzioni. Per i francesi, Bertand Chamayou è “le prince du piano”, l’erede naturale, con l’allure elegante che ne contraddistingue il passo, di quell’estinta, irripetibile generazione di connazionali che aveva avuto in Samson François l’astro più alto e luminoso. Nel panorama sempre più muscolare che contraddistingue la scena pianistica odierna, il suo laser capace di dipingere atmosfere e mondi con il pungolo di tratti brevi e leggeri è il biglietto da visita di un artista di rango superiore.
Lo scorso 3 agosto, al Festival de Musique di Menton, il suo atteso recital non ha trovato ad incorniciarlo lo spettacolo mozzafiato del Parvis di St. Michel, incastonato tra la pietra del borgo antico ed il mare; il vento – residuo dei violenti temporali che nelle ore precedenti si erano abbattuti sulla costa – minacciava la resa di suono dello streaming che, in quest’edizione n°71, rappresenta nell’intento del Direttore Artistico Paul Emmanuel Thomas l’imprescindibile ponte per raggiungere anche coloro, tanti, che il Covid ha tenuto lontani. Come ripiego d’emergenza, il recital si è quindi svolto all’intero della chiesa stessa, dove la generosa acustica delle navate ha fatto da naturale cassa di risonanza al percorso d’ascolto dipanato dal trentanovenne pianista di Tolosa. Un viaggio dell’anima, nella luce imbevuta dei colori densi ed aspri del Sud che, a partire da un trifoglio pescato da entrambi i Livres dei Préludes debussiani conduceva lontano, virando dapprima verso la tavolozza fauve del Midi di Ravel e quindi verso l’Italia, mèta, con le sue meraviglie disseminate in ogni suo angolo, del Grand Tour lisztiano.
Era la prima volta che ascoltavamo dal vivo questo principe dal temperamento affilato che rivela una genetica confidenza nel dipanare, fino al cuore più riposto, l’anima segreta della pagina, il suo lato più libero e scapricciato, incapace di stare in posa. Sotto un’apparente, sovrana essenzialità del gesto è una sopraffina padronanza del mezzo strumentale ad imporsi, espressa da una magnifica capacità di dare corsa al suono, a rievocare atmosfere alonate, pulviscolari, attraverso una sapiente combinazione di articolazione minuziosa e di chirurgico uso del pedale. Una galleria di ascolti in cui ogni pagina appariva collocata al suo posto, là dove la sua identità poteva meglio rilucere di luce naturale. Così era per i tre busti debussiani, ognuno scolpito con l’apposito scalpello. L’eco del mondo sommerso, solenne e misterioso che avvolge “La cathédrale engloutie”, a partire dai pinnacoli ovattati dei suoi accordi che introducono a mo’ di portale gotico all’interno del suo edificio sonoro fatto di severità e di folle slancio verticale, verso le zone acute della tastiera, come a raggiungere il cielo, o a riemergere in superficie. L’alonata suggestione che abita “La terrasse des audiences du clair de lune”, con i suoi riflessi perlacei ed opalescenti in cui più linee si sovrappongono in un ipnotico ordito.
La polverizzazione del suono e di ogni riferimento tonale in astratte, accecanti schegge di luce di “Feux d’artifice”, il più audace dei Préludes, con i suoi incendi subito smorzati in una visione lontana da cui affiora, inatteso e straniato, un frammento della Marsigliese. In questo percorso multisensoriale e quanto mai evocativo, sembrava quasi inevitabile l’incontro con le sottili ossessioni del Ravel più immaginifico, quello dei Miroirs, visioni fugaci ed al tempo così ostinate e penetranti nella memoria da farsi calco, rovello, tormento che a tratti sembra già prefigurare le atmosfere visionarie del Gaspard, l’inquieto canto di Ondine, la sagoma nera de “Le Gibet”. Ancora una volta, al cospetto di questi cinque tableaux sonori, Chamayou sapeva risvegliare, ben al di là della pur seducente patina “impressionista”, le ombre metafisiche che ne pervadono la scrittura. Anziché percorrerne l’elemento descrittivo suggerito dai titoli, Chamayou giustamente ne esplorava ragioni più riposte, meno immediate, cercando quell’inquietante, e al tempo avvincente, senso di mistero che attraversa questi specchi e miraggi. E con il suo pianismo fatto di domande, più che di affermazioni, sembrava invitare il pubblico una volta di più a non arrendersi di fronte alle immagini delle farfalle notturne di Noctuelles, o degli uccelli desolati di Oiseaux tristes, agli scenari marini di Une barque sur l’océan o alle seduzioni della notte spagnola di Alborada del Gracioso, ma a cercare l’intima voce di risonanze e di allusioni, di fremiti anche pungenti e di impetuosa sensualità. E questa immersione panica in una natura grondante di trepidazione sembrava sfociare, per fermentazione naturale, nell’abbraccio con il Liszt infallibile cacciatore di sensazioni ed esperienze che nelle sue Années de Pèlerinage aveva saputo raccontare la quintessenza di un’Italia eternata in busto marmoreo, divinità di pietra e di luce.
Les jeux d’eau à Villa d’Este sotto le mani di Chamayou prendevano vita con una freschezza non solo acquatica ma squisitamente sinestetica, nell’impalpabilità di un jeu perlé in cui la fragranza di un gioco di voci affioranti dallo zampillare placido di tremoli si faceva, in un crescendo incalzante, tripudio di bellezza. Un virtuosismo assoluto che mai sfuggiva alla sovrana conduzione di un interprete capace di temperare ogni eccesso in un’aristocratica, olimpica misura. A questo racconto avvincente mancava solo un elemento: lo strisciare delle onde in lontananza, che il respiro della brezza avrebbe portato fino al Parvis, dove la musica avrebbe potuto dialogare con la voce del mare, e con i suoi silenzi.