Recensioni - Cultura e musica

Myung-Whun Chung ha diretto la Nona di Beethoven a Caracalla

Bella esecuzione del celebre capolavoro beethoveniano nello scenario delle Terme di Caracalla a Roma, in occasione del programma estivo dell’Opera di Roma. Buona prova per i solisti, il soprano Olga Bezsmertna, il mezzosoprano Sara Mingardo, il tenore Giovanni Sala e il basso Roberto Tagliavini. Grande prova per l’orchestra ed il coro dell’Opera di Roma.

Un concerto molto suggestivo nella bellissima scenografia delle Terme di Caracalla, con il tutto esaurito: una presenza di pubblico molto importante, con molti stranieri tra gli spettatori, il che non può che far piacere, testimoniando l’interesse anche internazionale che la stagione dei concerti della capitale suscita tra il pubblico. L’esecuzione della sinfonia è avvenuta con l’ausilio dell’impianto microfonico per via delle particolari condizioni acustiche di un luogo unico al mondo.

La Sinfonia in re minore, Opera 125 per soli coro e orchestra, o Sinfonia Corale, fu eseguita la prima volta il 7 maggio 1824 al Theater am Kärntnertor di Vienna assieme alle prime tre parti della Missa Soleminis Op. 123, in un concerto che entrò davvero nella storia della musica di tutti i tempi. Per la prima volta in una composizione sinfonica oltre ai consueti movimenti strumentali, veniva inserito un ultimo vasto movimento per soli coro e orchestra, basato sui versi dell’Ode alla Gioia di Frederich Schiller.

La sinfonia era stata commissionata a Beethoven dalla Società Filarmonica di Londra già nel 1817 ma la composizione seguì solo successivamente, tra l’autunno del 1823 e il febbraio 1824 a partire da un’ampia raccolta di materiale precedente oltre che di nuova scrittura. Inizialmente sembra che fosse stato scelto il nome di Sinfonia Tedesca, poi accantonato in favore di Sinfonia Corale. L’idea di completare un ampio movimento sinfonico con un finale per soli e coro come culmine di un climax ascendente era già stata messa in pratica dal compositore nella Fantasia Corale per pianoforte, soli coro e orchestra in do minore Op. 80 nel 1808. In particolare, lo stesso tema del famoso Inno alla Gioia viene da lontano e non nasce con la Nona. Una sua versione primordiale si trova appunto nella citata Fantasia Corale ma una versione ancora precedente risale ad una composizione giovanile del 1795, un lied intitolato “Seufzer eines Ungeliebten - Gegenliebe” (Sospiro di una persona non amata – Amore in cambio) per tenore e pianoforte. Una versione praticamente identica, per una di quelle incredibili coincidenze storiche, risale addirittura ad una composizione corale di Mozart, il Misericordias Domini KV 222.

La prima esecuzione fu di difficile organizzazione, sia per la obiettiva difficoltà di preparare contemporaneamente due opere colossali come la Nona e la Missa Solemnis, la quantità di orchestrali e cantanti che era stato necessario reperire, sia per la fretta nell’eseguire ed organizzare le prove. La direzione dell’orchestra fu affidata al Kapel Meister del teatro stesso, Michael Umlauf, poiché Beethoven era già da tempo completamente sordo. Ma alla fine fu un successo strepitoso: al termine della Nona Beethoven, che aveva affiancato il direttore d’orchestra nell’esecuzione, non si accorse che la sinfonia era finita ed il pubblico lo stava omaggiando con ovazioni. A quel punto il contralto Caroline Unger, uno dei solisti, si avvicinò a lui e lo fece girare verso il pubblico. Secondo le cronache del tempo, il compositore ricevette almeno cinque ovazioni.

Tra le nove sinfonie, solo due sono in tonalità minore: la Quinta, Op.67, in do minore e la Nona, in re minore. Entrambe hanno fatto la storia della musica occidentale, entrambe condividono molti punti in comune: un primo movimento in tonalità minore energico e drammatico, un movimento lento strutturato per variazioni, uno scherzo in forma sonata e un finale trionfante in tonalità maggiore. Una contrapposizione tra ombra e luce, un percorso che dall’oscurità porta alla luce. Non si tratta di un mero caso, ma di una scelta estetica di poetica musicale ben precisa, che l’autore segue per tutta la sua vita.

Se nella musica di Mozart, solo pochi anni prima di Beethoven, il canto lirico poteva trasmettere ancora un messaggio etico e sociale ritenuto superiore alla musica strumentale stessa, tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 il pubblico si abitua e si convince sempre più che la musica è un linguaggio universale a sé stante che trasmette emozioni senza aver bisogno della parola come mediatrice del messaggio. E in quest’ottica una sinfonia diventa come un grande affresco che tramite un linguaggio di emozioni comunica con gli ascoltatori un mondo di sensazioni e di pensieri. Le sinfonie di Beethoven incarnano perfettamente proprio queste concezioni: la successione dei vari tempi delle composizioni accompagnano l’ascoltatore in un viaggio di emozioni e di sentimenti.

Questa idea del viaggio che porta dell’oscurità alla luce si afferma sin dalle composizioni giovanili: la sonata per violoncello e pianoforte Op. 5 nr 2 del 1796, la Sonata a Kreutzer per piano forte e violino Op. 47, l’Ouverture Egmont Op 84, la Quinta Sinfonia Op. 67, la Nona Op 125, ed il quartetto d’archi Op135 del 1826, ultima fatica del grande compositore tedesco, per ricordare le composizioni più importanti.

Ma le due sinfonie restano gli esempi più efficaci di questa contrapposizione buio/luce: le due sinfonie più famose della storia della musica.

Il primo movimento si apre con la celebre apertura a quinta vuota, l’accordo incompleto privo della nota modale, sotteso dal tremolio degli archi, che dà un’idea di caos inziale, quasi una “concertazione” orchestrale, al cui culmine esplode il tema principale, muscolare e marziale. È in forma sonata, con il classico secondo motivo a contrasto, più dolce e dimesso. Lo sviluppo è molto esteso e presenta, tra l’altro, sezioni fugate, fanfare, momenti di carattere marziale, come la ripresa del tema principale in fortissimo, sostenuta dai legni e dagli ottoni a pieno volume, con il rullante del timpano. È in tempo di 2/4, un tempo generalmente associato alla marcia. È anche il punto di partenza per questo percorso dal buio alla luce, ed infatti termina con una breve marcia funebre che ben si presta alla metafora. Contrariamente alle solite convezioni musicali dell’epoca, il secondo movimento non è un adagio, ma uno scherzo, sempre in forma sonata. L’incipit è un’energica serie di accordi con il timpano a contrasto, che apre la via ad un bellissimo fugato. Come ci si aspetterebbe, lo scherzo è in tempo ternario, mentre il trio centrale, a contrasto tonale, è in tempo di 2/2. Il tema del trio farà capolino nelle ultime battute della coda finale del brano. Il terzo tempo, per contro, è invece un adagio per variazioni, basato su un tema di una dolcezza quasi disarmante. Qui Beethoven alterna variazioni in ritmo binario di 4/4 a variazioni in ritmo ternario di 3/4, per poi terminare in 12/8. Anticipa quindi la poliritmia che verrà sviluppata più avanti nei primi anni del ‘900. La tonalità segue un percorso di allontanamento sempre più marcato dal monolitico re minore del primo tempo, oscillando tra si bemolle maggiore, re maggiore, sol maggiore ed ancora si bemolle maggiore… Un percorso sempre più diretto verso la luce quindi. Il culmine arriva con il quarto movimento: dopo una breve rassegna dei precedenti movimenti, accompagnata da un recitativo muto dei violoncelli, ecco che appare la luce: il tema dell’Inno alla Gioia. Suonato prima dai bassi, in modo tranquillo, quasi dimesso, accresce tramite una serie di variazioni per arrivare poi all’orchestra piena. A questo ricomincia daccapo, e questa volta con l’ausilio della voce: coro e soli entrano in scena. Ecco quindi che il primo recitativo dei violoncelli rivela adesso le parole sottintese, affidate al basso: una frase che fu scritta dallo stesso compositore, “O Freunde, nicht diese Töne! / Sondern laßt uns angenehmere / anstimmen und freudenvollere” (“Amici, non questi suoni! Piuttosto, altri intoniamone, più piacevoli e gioiosi”). Quello che segue è un unicum in tutta la storia musicale. Varie strofe dell’Ode alla Gioia di Schiller vengono cantate, alternando coro, soli e anche momenti puramente strumentali. Il brano è monotematico, scelta quasi sorprendente per una composizione ottocentesca, ed è costituito da una successione di parti, scritte in tonalità e ritmi diversi, separate da lunghe pause. Vale la pena di ricordare che fino a pochi mesi prima del completamento del quarto movimento, studiando le carte originali non si evidenzia una esplicita idea di scrivere una parte cantata: poi la decisione, la soluzione che mai nessuno aveva percorso prima, terminare la sinfonia con una estesa sezione corale. I musicologi hanno espresso pareri discordanti sulla struttura del brano: movimento per variazioni, fantasia musicale, rondò, ciclo di variazioni, forma sonata estesa… La musica diventa via via più concitata, fino ad arrivare alla sezione finale, una coda quasi comica, con tempi sempre più veloci, interrotti da brevi episodi più lenti e riflessivi: una sorta di gioioso patimento che porta al finale travolgente. Il percorso è compito, il buio è solo un ricordo e la luce ha rivelato una dimensione in più: la parola, che si affianca al suono.

La direzione del Maestro Myung-Whun Chung è stata certamente straordinaria: ha saputo cogliere la complessità e la vastità della Nona rendendola naturale e semplice mantendo nel pubblico una tensione ed un’attenzione costante per la durata dell’intero concerto. Una conduzione sicura e senza incertezze, nel solco di una interpretazione tradizionale e ben consolidata, che ha caratterizzato tutta l’esecuzione guadagnando il plauso finale del pubblico numeroso, a cui il Maestro ha concesso un breve bis. Particolarmente riuscita l’esecuzione del secondo movimento e del quarto movimento che hanno catturato l’ammirazione del pubblico per l’efficace resa delle diverse dinamiche, con i cambi di ritmo, di velocità e di tonalità che caratterizzano soprattutto il movimento corale.

Per quanto riguarda i solisti ed il coro, prova superata appieno, nonostante l’acustica particolare del palco abbia reso necessario l’uso di un impianto microfonico che può essere insidioso in brani così complessi e con così tanti esecutori. Il concerto vedeva tra l’altro il debutto all’Opera di Roma del soprano Olga Bezsmertna, del mezzosoprano Sara Mingardo e del tenore Giovanni Sala, debutto che non poteva essere dei migliori: una bella prova, pur nelle difficoltà di esecuzione delle parti cantate e corali, ben conosciute dagli addetti ai lavori. Beethoven ha un approccio quasi esclusivamente sinfonico anche nelle parti cantate, utilizzando i cantanti come fossero strumenti, il che non rende facile l’esecuzione canora, che presenta passaggi a volte difficili. Bravo anche il basso Roberto Tagliavini, grande esecutore di lunga esperienza. Applausi anche al direttore del coro, Ciro Visco per l’egregio lavoro di preparazione e conduzione.

Insomma, una esecuzione che è stata molto apprezzata, ed il lungo applauso finale ne è testimonianza… Speriamo di rivedere presto il Maestro, magari nelle prossime stagioni del Teatro dell’Opera.