Recensioni - Cultura e musica

Narek Hackhnazaryan e Georgy Tchaidze protagonisti di una straordinaria "Abendmusik"

I due fuoriclasse in concerto al Conservatorio di Milano per le Serate Musicali

Qualche volta accade. Difficile sorprendere il pubblico delle Serate Musicali di Milano, culturalmente viziato da mille ascolti di alto profilo. Ma lo scorso lunedì 24 gennaio, terza data in cartellone, di fronte ad una Sala Verdi del Conservatorio pronta ad accogliere un solista di razza come il Premio Čajkovskij Narek Hackhnazaryan, la carta coperta (e decisiva) è stata quella di un comprimario del calibro di Georgy Tchaidze, a sua volta personalità tra le più interessanti del pianismo emergente, trionfatore, tra gli altri, all’Honens di Calgary e al Top of the World di Tromso. Non numerosissimo, complice anche la serata da contrabbandieri che attanagliava la città in una morsa di gelo e nebbia, il pubblico in sala finiva, al termine di un viaggio di rara intensità, per essere completamente soggiogato dalla memorabile lezione di un camerismo in cui il Giuseppe Guarneri del 1707 ed il Fazioli grancoda parevano compenetrare le loro cordiere verso un’anima sola, immensamente sfaccettata, straordinariamente parlante, retta nei suoi segreti tiranti dal marmo di una strumentalità imperiosa, plasmata ad arte fino a farne materia cangiante, pura opale.

Più che un concerto, un’Abendmusik scandita da rimandi interni e sguardi incrociati, perfetta per ricreare, febbrile, la temperie di un irripetibile scorcio di Ottocento. Dapprima lo Schumann dei Phantasiestücke op.73, il filo esitante del canto, trattenuto tra le mani come una fiamma da non spegnere, via via sempre più incalzato dal fremito capriccioso del pianoforte che ne increspava le linee, fino all’ebbrezza leggera, a pelo d’acqua, che suggellava il trittico. Dieci minuti di musica, sufficienti per rendersi conto di avere di fronte due giganti. Una manciata di pagine ed ecco, catturata come poche altre volte ci è capitato di ascoltare, nel suo caleidoscopio di immaginifica bellezza, la poetica schumanniana, il suo umorismo sferzante, le sue brusche virate, il gioco che muove il racconto, tra vampate e braci. Un incanto che nemmeno l’applauso sembrava voler spezzare. E a seguire, nell’ardito virtuosismo dissimulato sotto un’allure intimamente liederistica, lo Schubert umbratile della Sonata D821 “Arpeggione” pareva raccogliere la cifra saturnina, rapsodica, della voce schumanniana e portarla a ritroso dentro il suo universo nella cui dolcezza delle linee, nell’amabile melanconia del suo canto ingenuo, cova il veleno di una sopita amarezza, una forza centripeta che costringe il viandante a tornare sui propri passi e a rifare il sentiero. Mai come qui, dopo il velluto del movimento centrale, l’Allegretto finale ci aveva rivelato, in filigrana, la maschera della morte, la danza macabra nascosta sotto adulanti movenze che ne abita le pieghe e che nemmeno e il sapore bonario della riconciliazione conclusiva bastava a cancellare.

A chiudere il cerchio dell’ascolto, in un dialogo serrato all’ultimo colpo di fioretto, era il Mendelssohn della Sonata op. 58, le sue spericolate rapide, la sua scrittura sovreccitata e strumentalmente proibitiva in cui le atmosfere schumanniane quanto gli echi schubertiani poggiano sugli architravi della lezione bachiana. E se fino a questo momento era stato il regista discreto ed insinuante della narrazione, il sottile, acuto tessitore dell’ordito drammaturgico esaltato dal violoncello, qui Tchaidze dilagava, magnifico, tuffandosi con incorruttibile lucidità e spericolato vitalismo lungo il tracciato disegnato da Mendelssohn e accendendone la miccia. Una serata di grazia. In Sala Verdi, lo spirito glorioso ed araldico di una ritrovata Davidsbund.