Recensioni - Cultura e musica

Non manca solo il do al Trovatore di Muti

Quanto più le questioni sono inutili e cretine tanto più diventano motivo di accesi dibattiti, al punto da distrarre completamente...

Quanto più le questioni sono inutili e cretine tanto più diventano motivo di accesi dibattiti, al punto da distrarre completamente da problematiche di ben altro valore ed interesse. E' questo il caso del "do della Pira" su cui tanto ci si è accapigliati in occasione del Trovatore che ha inaugurato la corrente stagione scaligera. Trovo sia assolutamente folle ridurre l'esito di oltre due ore di musica alla mancata emissione di una sola nota, peraltro apocrifa, e trovo ancora più bizzarri gli interventi mossi a legittimare o a negare la pertinenza della nota suddetta. Se la nota non è scritta ma la tradizione l'ha ormai consolidata, ritengo sia giusto tanto il cantarla quanto il non cantarla; si tratta solo di una scelta interpretativa e del taglio che si vuole dare all'opera medesima, tutto qui. E' chiaro però, e qui mi rivolgo ai cosiddetti "vociomani", che se l'emettere quella nota richiede una tale potenza di fiato da costringere il tenore ad eliminare il da capo della cabaletta (come peraltro dal vivo si è SEMPRE fatto, Corelli compreso), allora: via la nota e rispettiamo la cabaletta così come deve essere. Se poi un direttore sceglie una versione filologica, peraltro assolutamente legittima, non vedo perché levare tali e tante grida di disappunto.

La vera questione, a mio parere, sta da un'altra parte, e qui entriamo nello specifico di questo Trovatore: nel momento in cui si decide di seguire letteralmente la partitura originale, oltre all'assoluto rispetto delle note scritte non si dovrebbe seguire con altrettanta attenzione quanto dall'autore è prescritto anche in termine di dinamiche esecutive? Ovvero: Perché il filologo Muti spesso e volentieri, soprattutto nei passi concitati, stacca dei tempi estremamente rapidi, che non corrispondono a quanto Verdi ha richiesto, al punto da far nascere l'appellativo di "Verdi Garibaldino"? E di ciò si hanno testimonianze anche in sue vecchie Aide, Nabucchi e Rigoletti, tanto per sottolineare quello che non è un fenomeno occasionale ma una vera e propria prassi esecutiva. E non è questo l'unico elemento che contraddistingue una concertazione che, seppur di altissima fattura, difficilmente riesce a convincere ed a coinvolgere sino in fondo.
Musicalmente quest'interpretazione è caratterizzata da un'estrema cura ed attenzione del particolare e da una ricerca timbrica e cromatica, soprattutto nelle scene notturne, veramente straordinarie. Difficilmente penso si possa immaginare brani come "D'amor sull'ali rosee" o il "Balen" sorretti da un tappeto orchestrale altrettanto ricco e chiaroscurato, per non parlare dei guizzi degli archi nelle arie di Azucena: se il fuoco ha un corrispettivo in musica non può essere che questo. Purtroppo però, tanta precisione e tanta levigatezza, rischiano di trasformarsi, soprattutto in quelle parti dove invece sono richiesti piglio ed energia, in sterile calligrafismo, poiché il succitato espediente di accelerare i tempi per ottenere ritmo e serratezza dal discorso non consegue, a mio avviso, l'effetto desiderato, mentre il continuare a perseguire la ricerca della perfezione sonora porta ad imbalsamare qualunque tentativo di imprimere teatralità all'azione.

Ci si trova così davanti ad un Trovatore dalla doppia natura, che alterna momenti estremamente lirici e suggestivi ad altri altrettanto rigidi e trattenuti, in cui l'impeto ed il sentimento che la partitura richiede non riescono ad oltrepassare la soglia del palcoscenico. Purtroppo quest'ottica coinvolge anche i cantanti, che, inglobati in una lettura estetizzante, raramente si concedono veri e propri momenti di abbandono.
E' questo il caso soprattutto di Barbara Frittoli, una Leonora dalla splendida vocalità, estremamente versatile nelle agilità, in tutto aderente alla lettura di Muti di cui assorbe i pregi ma anche i limiti. Se "D'amor sull'ali rosee" è un momento di assoluta magia per l'intensità dell'esecuzione e per la maestria con cui viene interpretata, purtroppo, però, ad essa non fa seguito una cabaletta altrettanto convincente. "Tu vedrai se amore in terra", pur cantata con estrema precisione, manca, a mio avviso, della disperata passione che in tale situazione richiederebbe: è pur sempre una donna che si suicida per amore, che però stavolta, più che dell'innamorato, sembra preoccuparsi degli abbellimenti, peraltro magistralmente eseguiti.
Per Salvatore Licitra il discorso è leggermente diverso: con lui ci troviamo difronte ad una voce estremamente promettente ma il grande vocalista è ancora assente. Si tratta di un cantante alle prime esperienze, dotato di uno strumento estremamente interessante per potenza ed omogeneità, che però deve ancora imparare ad usare e dosare con proprietà. Il suo Manrico è ben cantato e possiede un notevole slancio eroico, ma la componente lirica è ancora lontana, visto che l'emissione si risolve spesso in un generico mezzo-forte che poco si sposa con la concertazione scelta in questo caso.
Impressione analoga per Leo Nucci, che delinea un Conte di Luna dalla vocalità muscolare che crea notevole contrasto con quanto proviene dal golfo mistico. Se nell'aria del "balen" dall'orchestra scaturisce un'atmosfera rarefatta, preziosissima, il baritono opta invece per un'emissione meno morbida, quasi atletica, priva di quel fraseggio che lo renderebbe un personaggio veramente seducente.
All'interno del quartetto dei protagonisti emerge Violeta Urmana, Azucena dal timbro straordinario e dall'emissione perfetta. Forse le si può imputare di mancare di corpo nelle note più gravi, ma si tratta proprio di un accanimento cavilloso. Splendidamente supportata da Muti, che le dedica i momenti più ispirati della sua concertazione, il personaggio della zingara è quello che maggiormente spicca per ricerca e completezza interpretativa. Funzionale ed appropriato l'apporto dei comprimari, straordinario come sempre il coro, anche se in qualche occasione, soprattutto nel primo atto, si è trovato in difficoltà negli attacchi.

Anche per quanto concerne la parte visiva dello spettacolo, come per quella musicale, si può parlare di riuscita ma non di capolavoro assoluto. Hugo De Ana che la cura nel triplice aspetto di regia, scene e costumi, rivela i classici limiti dello scenografo che passa anche alla regia: grande impatto visivo, una cornice estremamente estetizzante, ma povertà di idee e poco lavoro sui cantanti.
L'idea è quella di un Trovatore notturno, caratterizzato da imponenti ed opprimenti quinte materiche immerse in una luce blu che ne risalta la tridimensionalità. L'effetto è indubbiamente molto suggestivo, grazie anche alle straordinarie luci di Sergio Rossi, ma alla fine tutto si risolve in questo, ed il continuo andare avanti e indietro di pannelli risulta francamente spesso inutile; senza contare qualche caduta nel kitsch che De Ana si concede quale l'altare gotico semovente con reliquia annessa per la scena del matrimonio di Leonora, francamente imbarazzante. Da rimarcare i movimenti coreografici di Leda Lojodice che hanno il pregio di far muovere le masse corali che abitualmente invece vengono viste con terrore dai registi e quindi lasciate inerti. In questo caso, al contrario, coristi e figuranti animano la scena imprimendo dinamismo all'azione, anche se a volte, a causa delle succitate ed ingombranti quinte, gli spazi d'azione vengono di molto ridotti e l'effetto risulta un po' compresso. Praticamente nullo il lavoro sui cantanti che nelle posture ricordano allestimenti dei tempi che furono. In sostanza si può parlare di un buon servizio che si è reso all'opera verdiana, forse al meglio di quanto si può allestire in questi tempi, sicuramente però nulla che farà epoca.
D.Cor.