Recensioni - Cultura e musica

Nostalgica svogliatezza

Dimensione cameristica per il concerto di Guccini al Palageorge di Montichiari

L’aria che si respira all’arrivo al Pala-George di Montichiari è quella del concerto rock. Nel piazzale antistante l’ingresso un gruppo di ragazzi con i capelli rasta beve birra e fuma, poco distante un altro crocchio di giovani che sembrano arrivati da un centro sociale intona la locomotiva. Entrando l’atmosfera si trasforma e mostra un più eterogeneo uditorio comprensivo di distinti signori vestiti di giacca e camicie ben stirate o maglioni di cotone con pantaloni morbidi e argentee barbe ben tenute; tutti lì a significare il passaggio trasversale generazionale di uno dei più autorevoli cantautori del nostro tempo

A sottolineare il solco profondo lasciato nella nostra cultura  di questo poeta, oltre a quanto detto, l’affluenza sorprendente del pubblico (a cinque anni dall’ultima pubblicazione discografica) che si accalca nel campo da gioco e sugli spalti del palazzetto. Molti spettatori sono costretti a posizionarsi oltre la linea delle transenne, che sugli spalti non ci sono, fino a riempire posti troppo laterali. Puntuale Guccini sale sul palco preceduto dalla band, con quell’aria un po’ dimessa tutta sua, del tipo “Stasera ho un concerto mi metto comodo”. Ovazione del pubblico, bandiere e striscioni per la rock star. A questo punto ti aspetti il grande boato luci pirotecniche, chitarre e percussioni, musica che fa saltare in piedi. Non è così e i seguaci del “Guccio” lo sanno. Si accendono le luci a illuminare la platea, lui sfila il microfono e s’appoggia all’asta, si consulta con Flaco (il chitarrista) sul da farsi, e inizia a parlare fra i denti come fosse arrivato in casa di amici o all’osteria, tant’è che alcuni zittiscono gli altri che non si sono accorti che ha iniziato a parlare. Da un tricolore sventolato in platea parte un lungo preambolo di satira politica e attualità che culmina nel nulla . Il concerto inizia con “Canzone per un amica”. L’acustica del Palageorge non è felicissima ed il suono è disturbato soprattutto nei posti “troppo laterali” a tal punto da non comprendere i testi e non riuscire a distinguere il timbro di alcuni strumenti.
Il concerto si snocciola in lunghissime chiacchierate con il pubblico o addirittura con i musicisti, soprattutto con Flaco, e pezzi di storia della musica italiana con picchi altissimi, quando la musica e la poesia, prendono il sopravvento sul resto esplodendo in coralità spontanee e suggestive. L’urlo ecologista più che mai attuale di “Noi non ci saremo”, lo squarcio pacifista di “Auschwitz” e “Dio è morto” il silenzio attonito, quasi contemplativo della platea, nella magica esecuzione di “Canzone quasi d’amore” il tripudio delirante e tutti in piedi quando Flaco si trasforma nel fido Sancho Panza e attacca con “Don Chisciotte”. Da lì tutto in crescendo e atmosfere magiche e vibranti fino alla fine, passando da “Cirano”ed arrivando ad “Eskimo” e “La locomotiva”. Nessuna concessione al pubblico, il maestro scende dal palco verso i camerini con la sua andatura dimessa accendendosi una sigaretta. Nessuno osa acclamare un bis. Si accendono le luci, la gente scema garbatamente, con la stessa compostezza ed educazione con cui ha assistito al concerto.

Alberto cella 30 aprile 2010