Recensioni - Cultura e musica

Parma: Due preziose gemme della raffinata stagione concertistica

Beatrice Rana in un programma eclettico e stimolante;  il Trio di Parma seduce con Brahms e Čaikovskij

Lo stato di salute di una città lo vedi dalle poltrone occupate dei suoi teatri e, con esse, dal grado di partecipazione di chi a teatro siede. Parma sta accingendosi a salutare il suo anno-biennio di Capitale Italiana della Cultura, ma al Regio nessun riflettore sembra intenzionato ad abbassarsi. Accanto (non a margine) della Stagione Lirica e del Festival Verdi, la Stagione Concertistica è realtà con radici profonde quanto gloriose, appuntamento identitario con cui ospitare in casa propria un po’ del meglio del mondo musicale e al tempo stesso offrire al mondo un po’ del proprio meglio. E la costante - lo diciamo con un’ammirazione non disgiunta da una punta di cordiale invidia - è un pubblico eterogeneo, colorato, punteggiato di giovani, siano essi musicisti a tempo perso o scalpitanti promesse. Guai quando la musica diventa roccaforte di benestanti attempati e non sa incontrare le generazioni affacciate sul domani, scuoterle, provocarle con l’imperiosa prepotenza della sua voce. Parma Capitale declina dunque, ma la vitalità della sua proposta rimane saldamente al centro della scena.

Dopo il concerto d’esordio in cui a spiccare, ancora una volta, era la statura intellettuale, prima ancora che strumentale, di Alexander Lonquich, straordinario scandagliatore di universi vicini e lontanissimi, con l’op. 11 di Schumann e la Sonata “27 aprile 1945” di Hartmann come pietre angolari di una lacerante riflessione su uomo e storia, individuo e cosmo, due appuntamenti ravvicinati vedevano succedersi sul palco la pianista Beatrice Rana ed i padroni di casa del Trio di Parma. Clima festoso, palchi esauriti, attesa carica di palpabile entusiasmo, ovazioni finali come costante. Lo scorso 28 novembre Rana, giovane ambasciatrice del pianismo italiano nel mondo, accendeva il Regio con un programma dichiaratamente ambizioso che vedeva dialogare, per sottili assonanze, le sequenze unitarie dei Quattro Scherzi chopiniani e delle sei Etudes che compongono il Premier Livre di Debussy, per chiudere con la mirabolante Settimana Grassa che affolla i tre pannelli dello stravinskiano Petrouchka. Creature inquiete, mercuriali, intimamente attraversate da correnti avverse, gli Scherzi. Miniature di luce e di progressiva astrazione le Etudes, figlie della chopiniana lezione sul timbro, fucine di vertiginosa sperimentazione sulla rifrazione sonora, sulla matrice poetica necessariamente annidata anche là dove il pedante accademismo vede solo meccanici esercizi alla sbarra. In entrambi i casi, universi dalla doppia anima, mordace e lirica, irruenta e contemplativa, virtuosistica ed immateriale, che la giovane pianista salentina attraversava indugiando più sul versante più magmatico e ribollente che su quello scorciato di una suggestione tutt’altro che esteriore.  Ne scaturiva una restituzione audace quanto sorprendente nella risoluzione apparentemente facile di una scrittura in realtà disseminata di tranelli, ora evidenti e molto più spesso celati, ma solo parzialmente evocativa di quel sommerso non detto che di queste pagine è il segreto tirante.

Di trionfo in trionfo, sabato 4 dicembre era la volta del ritorno del Trio di Parma. Ragazzi di una generazione fa, figli della città tutta. Ora Alberto Miodini, Ivan Rabaglia ed Enrico Bronzi sono musicisti nel pieno di una maturità feconda, al cui arco vantano le frecce di una carriera ormai trentennale. La lente sulla pagina è sempre quella. Intelligente, penetrante, avvincente. E la complicità è terreno che ormai i tre percorrono ad occhi chiusi, sul tracciato di un’intesa macerata attraverso le tappe di un’intera vita. Un conoscersi che, forse, oggi toglie qua e là quell’incrollabile nitore che viene solo dal quotidiano, certosino lavoro d’insieme sulla pagina e che una carriera individuale così fitta rende utopistico. In passato ne avevamo apprezzato ancor più la fluidità, la densità dell’ordito drammaturgico, la circolarità sapida eppur lieve nel cogliere e rilanciarsi reciprocamente spunti e guizzi capaci di evocare in poche battute la sensazione di un teatro senza scene, la voce di verità senza tempo. Oggi ne ritroviamo la classe innata, l’autorevolezza, la facilità nell’allestire sin dalle prime note un dialogo appassionante ed instancabilmente interrogativo, nella scelta di un clima più temperato, di un passo più disteso.  Prima di approdare al fluviale affresco del Trio op.50 di Čaikovskij, il Brahms crepitante ed assoluto dell’op.8 – sintesi mirabile di due stagioni della vita e dell’anima che solo il tornare sui propri passi e riavvolgere il nastro di quanto detto e fatto consente  – appariva nelle loro mani l’approdo ad una temperata, sovrana misura in cui i tre vertici – il traboccante violoncello di Bronzi, il pungolo insinuante di Miodini, l’affilato, asciutto violino di Rabaglia – si incontravano in un dialogo onesto. Senza filtri, con qualche illusione in meno. Ma con la stessa voglia di svelarsi e di raccontarsi l’uno all’altro, scoprendo nel mentre molto di sé. Appalusi torrenziali alla meglio (ex) gioventù di una città che nel segno della grande musica omaggia il passato e guarda al futuro.