Recensioni - Cultura e musica

Parma: La classe senza tempo di Pierre Laurent Aimard al Teatro Farnese

Beethoven, Schönberg e Lachenmann protagonisti del quarto appuntamento della rassegna Traiettorie

 

Innanzitutto il luogo: quella cavità tremenda e magnifica, nata quattro secoli fa dall’ambizione di Ranuccio I per stupire l’occhio smaliziato di Cosimo II de Medici, al suo passaggio da Parma. Da anni, la metafisica imponenza del Teatro Farnese è la cornice perfetta della rassegna di Traiettorie, ossia lo sguardo più acuminato che la città affonda su una memoria tentacolare e pervasiva, annidata nel nostro presente indicativo, a scandagliarne il groviglio di sussulti e di contraddizioni, ma soprattutto le ramificazioni già tese a piene mani sul prossimo futuro. Un cartellone più appartato rispetto all’eco roboante del contemporaneo Festival Verdi, ma di certo non meno ambizioso, tagliato anzi su percorsi di ascolto tutti volti a fornire all’uditorio nuove angolazioni, ulteriori interrogativi, chiavi inedite. Prima inter pares di una galleria di serate irrinunciabili è stata quella dello scorso sabato 19 ottobre, quando sul palco – collocato sul lato opposto allo spazio scenico del teatro, dove il suono del pianoforte potesse essere avvolto dalla presenza delle gradinate – è approdata la classe senza tempo di Pierre Laurent Aimard.

Trasmigratore per natura, da sempre anello di congiunzione tra mondi e linguaggi, Aimard ha ancora una volta confermato il peso specifico della propria statura artistica cucendo un itinerario di grande densità emotiva arroccato nel cuore dell’Europa, in quel territorio tra Austria e Germania dove molta parte del fermento musicale ha trovato e trova tuttora linfa e vigore. Il giovane Beethoven della terza Sonata dell’op.10, lo Schönberg esplorativo dei 5 pezzi op. 23, germinale atto di nascita della dodecafonia, ma soprattutto l’estremo approdo a quella monumentale Serynade in cui, nel 1998, in chiusura di XX secolo, Lachenmann pungola il suono fino a trasfigurarne la componente più materica in dolorosi grumi rappresi. Tre giganti solitari, tre sommi numeri primi, nelle cui pieghe Aimard srotolava con laica devozione una tela densa di rimandi, di affinità impensate. Chi si aspettava il Beethoven iperpianistico e (purtroppo spesso) vagamente nevrotico delle guizzanti creature giovanili ha dovuto presto arrendersi ad una visione chirurgica, tesa nel gioco dei piani sonori, sempre drammatici, nell’uso secco del pedale, nell’esaltazione, sin dal perentorio disegno di ottave dell’attacco, degli scarti d’umore, di quel gioco non di rado aspro che Beethoven utilizza come principio combinatorio fino all’inatteso fuggevole finale, là dove ogni nube minacciosa sembra svanire in un mirabile battito d’ali, ed anche l’insostenibile gravità del sublime movimento centrale cede il passo ad un impensabile quanto malcerto “lieto fine”. Aristocratico dispensatore di quello sguardo che dice l’umiltà di un messaggio da porgere e condividere, Aimard ha fatto, della sfinge beethoveniana, la lente privilegiata dal cui spettro visivo indagare anche le altre pagine. Innanzitutto le cinque miniature dell’op. 23 dove Schönberg sperimenta, sui ferrei principi di un’inesausta energia metamorfica, i primi passi verso la soluzione di sequenze chiuse, tipiche della serialità. Sottilissime variazioni di ritmo, dinamica, timbro, rapporti armonici nel cui rovello si annida un principio costruttivo novo, una sintassi che ordisce e sfilaccia trame sonore. Una lettura in chiaro, verticale, a svelare dall’interno i tiranti del pensiero che sottende la complessità di questi pezzi. Poi, la discesa nel nero pece della monumentale “Serynade” di Lachenmann, nelle sue geometrie astrali in cui il suono si faceva pervasiva, perforante risonanza; cluster come strazianti ferite su una cordiera sovreccitata, contrappuntati a silenzi altrettanto fitti e lancinanti, scenari bruciati e desolanti come nei paesaggi di Kiefer. L’utopia di trattenere il suono oltre il suo esaurirsi nella vibrazione della corda, e con esso il volatilizzarsi dell’esperienza. Il tentativo doloroso e umanissimo di dare sostanza e rappresentazione all’esistenza e, allo stesso tempo, alla sua impossibilità di trovare voce capace a contenerne l’impeto. Un crescendo, dinamico ed emotivo, condotto tra tasto e pedale, che sfidava l’esecutore a cercare nello strumento molteplici approcci e gestualità.

Una serata indimenticabile. Intensa e breve come solo gli ascolti che non danno tregua sanno essere. Un ultimo momento di musica, infine, concesso da Aimard ai ripetuti inviti del pubblico visibilmente emozionato: due pagine firmate da Kurtag, figura cardine nelle frequentazioni e collaborazioni dell’interprete, in omaggio alla recente scomparsa della moglie Marta, indimenticabile musa e complice di un’intera vita in musica.