Recensioni - Cultura e musica

Parma: La musica senza confini di Omer Meir Wellber

Indimenticabile concerto per l'edizione zero del Festival Toscanini

Un filo sottilissimo a tenere appesi mondi, a cucire linguaggi, a rammendare ferite e distanze. La voce di Arturo Toscanini, in quella metafisica cassa di risonanza che è il Farnese di Parma, lo scorso 12 giugno era virgiliana memoria ad accompagnare l’uditorio in un viaggio tra latitudini e visioni espressive, terre di confine dove i concetti di limes e limen si intrecciano e si scambiano di ruolo fino a confondersi come in un gioco di ombre. Confini e soglie, passaggi e muri che Omer Meir Wellber – una biografia che in queste due parole assonanti ha il suo karma - ha riletto proiettandole addosso alla vicenda artistica ed umana del Maestro, non solo io narrante dello spettacolo evento nel breve quanto intenso calendario del Festival Toscanini nella sua Edizione Zero, ma anche ago magnetico capace di richiamare esistenze marginali, luoghi periferici, echi di minoranze prosciugati nell’avanzare della desertificazione della memoria.

Figura poliedrica, carismatica, torreggiante, Wellber – direttore d’orchestra, scrittore, polistrumentista, intellettuale da sempre engagé nell’intento fare della musica un manifesto politico, e quindi civile – ha chiamato a sé una rosa di musicisti eccellenti, invitati a contrappuntare l’incalzare degli spunti generati dal suo accordion.  Il contrabbasso viscerale di Matteo Liuzzi, protagonista della Kadenza per strumento solo scritta dal finlandese Teppo Hauta-Aho; la voce (plastica, dolorosa, struggente, magnificamente addentrata nella parola, ossia nel racconto) di Mert Süngü, pronta a srotolare storie millenarie di incontri, conflitti, abbracci, addii sul tappeto sonoro della sua chitarra in “Sari Gelin”, canto d’amore e di perdita in cui, miracolosamente, le anime armena, azera e turca si ritrovano e convergono attorno allo stesso giro di compasso. Ma soprattutto, e moltitudini disegnate dal clarinetto evocativo, a tratti rabdomantico, di Anton Dressler; proiettata nello scrigno acustico del teatro di corte, la linea del suo canto improvvisato trovava, grazie all’ausilio elettronico, se stessa ed il proprio doppio, l’io ed il non io in una sovrapposizione immaginifica.

Indimenticabile, così come lo era la pagina finale di Dave Tarras, una Trilogia klezmer intrisa echi zigani e di contaminazioni, di melodie spurie, di commovente trivialità. Incastonati nel viaggio inanellato dalla voce recitante di Michele Lettera -  che ha proposto stralci di lettere e di testimonianze del Maestro, con particolare riferimento al suo battesimo della futura Israel Philarmonic Orchestra, con il concerto tenuto a Tel Aviv nel 1936 alla presenza del suo fondatore, il violinista Bronislaw Huberman – i quattro archi principali della Filarmonica Toscanini, alle prese con le nostalgie e le reminiscenze di Dvorak e del suo Quartetto americano.