Recensioni - Cultura e musica

Parma: Lucido e commovente il Requiem di Mariotti

Il direttore pesarese ha diretto al Teatro Regio il capolavoro sacro di Giuseppe Verdi

È la cartina tornasole del Festival Verdi, la Messa da Requiem, puntualmente incastonata, ogni anno, nel cuore del suo cartellone. Pietra miliare di un percorso imprescindibile, forse più cima più alta tra le altissime vette creative del Maestro, sicuramente la più ardua da cogliere nella sua complessa, sofferta essenza di creatura di frontiera, liberata da ogni patina teatrale eppure, a suo modo, intimamente abitata da riverberi occhieggianti al più ispirato teatro. In questi anni, edizione dopo edizione, ne abbiamo attraversato le pagine lasciandoci guidare dallo sguardo di chi, di volta in volta, ne disegnava i contorni, ne svelava i misteri. Quella estrema di Temirkanov, un congedo di struggente intensità, quella vertiginosa di Maazel, indimenticabile in un Duomo gremito, quella recente di Daniele Gatti, vibrante di un’introspezione capace di turbare anche a distanza di giorni.

A questa galleria va ora aggiunta la teca in cui collocare la Messa firmata, in questo 2022, da Michele Mariotti, alla testa dell’Orchestra Nazionale della RAI. Fredda nei colori e nei tratti, avvolta da una luce nordica che ne sferzava le linee con folate impietose, commovente nell’onestà con cui si poneva di fronte al mistero più grande. La bacchetta del direttore pesarese è sempre magnifica nell’indagare sotto la pelle del tessuto musicale, nel non farsi bastare la superficie di ciò che appare. Senza riverenze né indulgenze, in pericoloso bilico, nel vuoto di una restituzione in cui era la nudità il tratto dominante – nudità rispetto ad impasti, a effetti e tentazioni care più alla scena che al confessionale – Mariotti accendeva la compagine torinese di una fiamma pura e incendiaria, pronta a divampare. Da subito, dall’annunciarsi dei violoncelli come spettri sul buio livido di un cielo vuoto; tutto è compiuto, nulla è più. Non un ingresso ma, al contrario, una ricapitolazione, uno sguardo retrospettivo sulla vita e sul suo tragico, convulso, umanissimo teatro, quando di essa è ormai solo cenere. Su questo fondale di pece in cui, da subito, la bacchetta di Mariotti entrava con autentiche sciabolate, le voci apparivano bassorilievi – dolenti, stagliati, scolpiti – di una sacra rappresentazione, sagome individuali e universali, strumenti tra gli strumenti di un dialogo avvincente. Nessuna metafora, nessuna finzione. Il Rex tremendae era parola incarnata, angoscia senza scampo, così come prima, gli strali del Dies Irae alzavano folate di polvere dalle cordiere degli archi, lanciati ad uno sfrenato, folle galoppo come anime dannate di una scena giottesca. E ancora, il Recordare, nostalgico, struggente.

Un lavoro di concertazione raffinatissima, quello di Mariotti, a scolpire la dimensione umana nella lapidaria imponenza di un blocco unico, senza interstizi, senza flessioni, eppure internamente animato da correnti vive, turbinose, mercuriali. Acqua che corre nelle vene del marmo. Di fronte a questo mistero, non c’è colpa lavata, non c’è intercessione. Il castigo di Dio è giusto e necessario, e anche quando giunge l’alito del Suo perdono, la colpa dell’uomo rimane, a ricordargli l’umiltà, la transitorietà della sua natura. Altrettanto pregnante era il damasco di voci, in perfetta simbiosi con il podio. Su tutti, la dolente, accorata intensità di Varduhi Abrahamyan, perfettamente contrappuntata dal velluto di Riccardo Zanellato (come non avvertire i riverberi di Boccanegra nel Mors stupebit?) e dai riflessi bronzei di Stefan Pop. Oro purissimo, anche se a tratti eccessivamente svettante, anche la voce di Marina Rebeka, protagonista di un turbato Libera me, Domine, in millimetrico assetto con il sempre ottimo coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, qui alla sua prova più ardua: un coro nel senso greco della sua essenza, presenza costante, incombente, necessaria. Voce narrante ma anche implicata; collettività che non si limita a guardare ma che prende parte alla vicenda, la avvolge, la porta a riva, a costo della vita. Un vibrante affresco sociale, un manifesto politico steso a tratti rapidi, affrontato a piedi calzati, sferzante, ruvido. Un’altra memorabile pagina del Festival. Applausi e fiori ai solisti.