Recensioni - Cultura e musica

Parma: Monumentale e severa Messa da Requiem

Oxana Lyniv ha diretto il capolavoro sacro verdiano alla testa dei complessi del Teatro Comunale di Bologna affiancati dal Coro del Teatro Regio di Parma

Stella polare del Festival Verdi, rassicurante astro nel suo cielo mobile di titoli d’opera e serate di gala, la Messa da Requiem del genio di Busseto rappresenta il fulcro ricorsivo della programmazione, una sorta di cuore pulsante attorno al quale, o forse a partire dal quale, puntualmente si irradia la rosa di proposte in cartellone. Pagina di incomparabile bellezza, certo, ma anche di altrettanto vertiginosa complessità, quintessenza ideale di tutto ciò che Verdi ha disseminato nel giardino delle sue ventisette creature, nei profili di ogni singola comparsa uscita dalla sua penna, ma al tempo stesso sua rarefatta sublimazione, hortus conclusus di una riflessione esistenziale che inciampa, in un cammino doloroso e a modo suo catartico, nelle domande eterne di fronte al cui mistero l’artista si spoglia di ogni sua armatura e rimane uomo tra gli uomini.

La Messa è dunque, anno dopo anno, l’occasione per il pubblico di Parma – e per i tanti suoi irriducibili sostenitori provenienti da ogni parte d’Europa – per sostare di fronte alle poderose arcate di questa cattedrale, per immergersi nelle sue navate oscure. Non riusciamo a toglierci dalla testa quella, di un magnetismo fatale, avvolta da una patina di agghiacciante potenza drammatica, firmata nel 2009 da Lorin Maazel e, più di recente, quella austera, sospesa a mezz’aria, speculativa nel suo passo mistico, strascicato come lo è ogni passo sofferente, di Daniele Gatti, contrapposta al vigore netto e stagliato di quella scandita, da visionario combattente, da Michele Mariotti. Così, ogni direttore finisce per plasmare a suo gusto questo affresco che le vicende esterne legano alla morte di Alessandro Manzoni ma che, nella realtà, accompagna il compositore in un processo di fermentazione ben più ampio e antico, attraverso quei rovelli universali che una visione forse non atea ma certamente anticlericale e comunque scettica, anziché appannare, rende ancor più avvincenti nella vibrante sincerità degli esiti.

Lo scorso 23 settembre, in un Regio affollato che tradiva l’importanza dell’evento, la conduzione è stata affidata al temperamento sanguigno di Oxana Lyniv; bacchetta principale al Comunale di Bologna, talento emergente impostosi soprattutto sul terreno di opere del tardo romanticismo e dell’espressionismo tedesco, la direttrice ucraina ha traghettato, da una riva all’altra del maestoso fiume che scorre in questo arazzo, un’autentica moltitudine, composta dai musicisti dell’Orchestra del Comunale e dai due cori dei teatri di Parma e di Bologna. Una colata sonora di straordinario impatto, condotta con braccio tanto saldo e autorevole quanto, sin da subito, tradito da una certa sommaria rigidità, tanto da impedire – già dal sibillino, impercettibile mormorio che, prima negli archi, poi nell’affiorare del coro, invade lo spazio – il pieno snodarsi di tinte e di umori che abitano la screziata partitura. Il Dio di Verdi non dispensa certamente tenerezze né lascia troppo spazio a riconciliazioni ma, tuttavia, nella granitica severità di uno sguardo al cielo profondamente radicato nella dura terra -  e con essa nella fallacia della sua dimensione provvisoria, proprio in quanto umano, troppo umano - conosce l’uomo, le intime debolezze, quei trasalimenti e quel vacillare del cuore che, se non cercano scorciatoie nel conforto nel sacro, certamente si avvicinano ad esso, nella carnalità sanguinante, dolorosa, singhiozzante della loro misera finitezza. Ecco, In questo Requiem mancava l’alito di questo trepidante senso del sacro, tutto verdiano. Nella regolarità quasi asfittica di un passo militaresco, inflessibile nell’assecondare quella naturale, plastica morbidezza di fraseggi e di intenti che avrebbe consentito di dare lo spessore e il giusto slancio, Lyniv ha preferito concepire il suo approccio per blocchi dinamici contrapposti, tra la cascata di decibel che si percuoteva sul Dies Irae (senza tuttavia riscattarne l’anima e il significato, anche sintattico, del disegno complessivo) e il contrappuntare delle quattro voci solistiche, anch’esse mortificate dalle dure maglie della conduzione. La classe e, sempre più, l’esperienza di Michele Pertusi, il pathos brunito di Daniela Barcellona, la sorprendente intensità di Federica Lombardo e l’esuberante spavalderia di Freddie de Tommaso trovavano una via decisamente stretta attraverso la quale delineare il loro commento al dramma senza tempo di fronte al terrore dell’eterno. A mancare, o a balenare solo a tratti e sempre con poca convinzione, tanto da chiedersi se fosse realmente così o se fosse solo frutto del nostro desiderio di sentire finalmente la partitura decollare, era la sontuosa, serrata  circolarità dell’impianto architettonico, con il ritorno del materiale già ascoltato e quindi trasfigurato, sublimato, senza tuttavia perdere quell’alone di dubbio che non si allontana mai dal cielo di Verdi. E la scansione delle varie parti, pallida nel sottolineare gli snodi cruciali, pareva non accorgersi del cielo stellato sopra il turbine di note che affolla le varie sezioni, presa dalla sua immanenza tutta in superficie. Applausi generosi, con gli interpreti più volte richiamati in scena.