
La pianista russa in un travolgente concerto con la Toscanini diretta da Ivor Bolton
È una parata di stelle il gran finale con cui la Toscanini celebra i suoi primi cinquant’anni. Dopo Vadym Kholodenko, intenso protagonista di un sontuoso Secondo Concerto op.83 di Brahms diretto da Christoph Eschenbach, prima della chiusura di sipario affidata al violino fatato di Carolin Widmann, lo scorso 17 maggio è stata la volta di Yulianna Avdeeva.
Nata nel 1985, prima allieva della Gnessin Special School di Mosca e poi alla Hochschule der Künste di Zurigo nella classe di Konstantin Scherbakov, di cui è successivamente diventata assistente, il suo nome si impone quando, nel 2010, si aggiudica il Primo Premio al Concorso Chopin di Varsavia, prima donna dopo Martha Argerich, nel 1965. A Parma, sotto la guida di Ivor Bolton – una bacchetta in ascolto, la sua, acuta, coraggiosa, inclusiva - Avdeeva ha dato prova della classe che le aveva consentito, nel 2010, di sbaragliare legioni di agguerriti concorrenti, imponendosi proprio con la cifra di un pianismo di sorgiva nobiltà, fatto di sonorità raccolte, appassionata devozione, vivacità immaginativa. Niente a che fare con l’oro fuso del suono di Kholodenko, niente spigoli da maschera funeraria micenea, la pianista moscovita ha condotto l’uditorio in un Concerto in Si bemolle maggiore di Čajkovskij per una volta lontano dal roboante virtuosismo a cui troppo spesso è confinato e, anzi, levigato a pennino fine sul canto lungo di frasi stese per legati avvolgenti, privilegiando il sottobosco delle mezze tinte, dell’intimo fremere di battiti d’ali, di vampate di magnifico, leggiadro furore. Incalzanti ma mai gratuitamente muscolari, i tre pannelli di questo affresco splendevano sotto una luce nuova, inedita; una luce morbida, accogliente, pronta a smorzare impennate narcisistiche e a tramutarle in folleggianti movenze da balletto. Il respiro grandioso del primo movimento, più che nei decibel, stava nell’abile gioco interno delle frasi, inseguite sino al loro addentrarsi in impercettibili bisbiglii – come il carillon che imperlava di cristalli la Cadenza -, nell’abbraccio di un’orchestra duttile, risonante, immediatamente sintonizzata sulle corde della solista.
Ecco: ciò che contraddistingue questa giovane signora del pianoforte è il piacere del racconto, l’affabulazione discreta di una padrona di casa che mette subito l’ospite a proprio agio, ne trova l’appiglio per avviare una conversazione e valorizzarne il profilo. Così, il pianoforte era voce tra le voci dentro all’orchestra, in un dialogo sincero, intimo, spiccatamente cameristico. Nessuna scorciatoia, nessun ammiccamento. L’oasi sospesa del secondo movimento era stupefatta attesa, punteggiata da flauti lontani, prima del fuoco alle polveri dato al vorticoso Presto, una danse à la russe che era il pianoforte, magnifico, a guidare, mentre dal turbinio dell’orchestra era tutto un fiorire di linee secondarie, commenti leziosi e divertiti, cambi di passo e gioiosi pettegolezzi a margine della scena. Un cammeo di incantata commozione, poi, il bis. Una mazurka firmata da Władysław Szpilman, il celebre Pianista immortalato da Polanski nell’omonimo film, scritta nell’opprimente prigionia del ghetto in cui lui e la sua famiglia erano stati confinati. Toccante omaggio a Chopin, l’innominabile autore di cui i nazisti avevano vietato l’esecuzione in terra polacca, rievocato in una sorta di ricordo accarezzato e subito sfuggito, che Avdeeva dipingeva a suggello di una serata da ricordare, prima di lasciare il campo alle atmosfere alpestri della Seconda Sinfonia di Brahms.