Il Concerto Imperatore e la Settima sinfonia in streming dall'Auditorium Paganini, protagonista l'Orchestra Toscanini
Chissà se in quel silenzio surreale arrivava qualche sentore di vita, di quella magica, irripetibile condivisione che restituisce, a chi fa musica, il senso ultimo del suo donarsi senza riserve. All’Auditorium Paganini di Parma, giusto il tempo di debuttare ed ecco la Stagione già in stallo, strozzata dall’impietosa morsa del virus che rialza la testa. Non sono bastati i titanici sforzi di distanziare, ridurre presenze, replicare appuntamenti, in una corsa a perdifiato ad ossequiare il tamburo battente ed imprevedibile di mille decreti, a cavalcare le onde in balia di un battello ormai ebbro. Tutto fermo. Così, con una mossa che da un lato commuove per generosità e dall’altro fa sorridere per spudorata resilienza, la Filarmonica Toscanini ha deciso di rilanciare il dado e di proseguire, imperterrita. On line, con una diretta streaming aperta a tutti, abbonati e non, inguaribili appassionati e neofiti dell’ultima ora. Un regalo, e al tempo un atto politico. Una barricata di note e di sangue.
Dall’altra parte dello schermo, lo scorso venerdì 30 ottobre, noi; ognuno nelle proprie case, a condividere una serata dai tanti significati. Quasi 500 connessioni, il che significa probabilmente almeno il doppio di presenze. Le pareti domestiche a fare da sfondo, ben più prosaico rispetto alle suggestive vetrate affacciate sul parco, ad un concerto magnifico. Sul podio, per la seconda volta dalla sua nomina a Direttore stabile, Enrico Onofri incontrava per l’occasione il talento straripante di Vadym Kholodenko sul tracciato del Concerto op.73 di Beethoven. Due approcci per diversi aspetti lontani che il direttore romagnolo, con quella acuta duttilità che gli è propria, sapeva conciliare e rilanciare, smussando con garbo gli spigoli vivi del pianismo sontuoso e mordace del giovane interprete russo, stemperandone a tratti l’incalzante piglio a favore di un più arioso dialogare tra le parti, sapendo tenere sul filo della tensione ogni voce dell’orchestra, risvegliando dall’ombra timbri e voci interne.
Un Imperatore dal passo spigliato e teso, sceso dal piedistallo e fattosi uomo, pronto a svelare, di sé, inedite sfaccettature spesso offuscate sotto la roboante muscolarità delle sue imponenti campate. Dal canto suo, Kholodenko – artista in residenza della formazione, clamoroso vincitore nel 2013 del Concorso Van Cliburn – si è confermato interprete di assoluto spessore. Acuto indagatore della pagina beethoveniana, esaltata in ogni sua minuzia, ha impresso al Concerto la cifra distintiva del suo humor corrosivo - particolarmente evidente nel passo e nella resa della Cadenza del Primo Movimento, così come nell’esaltante invito alla danza che irrompe nel terzo movimento - servendola sul piatto d’argento di un pianismo di smagliante rifinitura. La scuola, d’altronde, è quella di altri semidei della scena emergente, intelligenze alate e spavalde prima ancora che mani prodigiose, tutte forgiate nel vivaio senza pari del Conservatorio di Mosca: Pavel Kolesnikov, Lukas Geniušas, l’immenso Georgy Tchaidze. Volti da ragazzini ed un’autorevolezza che sfida senza batticuore i giganti del secolo scorso. A salutare un’esecuzione che vale la pena di riassaporare (sul sito della Toscanini e sulla pagina Facebook dell’orchestra è ancora disponibile il video) a scrosciare erano, silenziose e torrenziali, le parole di gratitudine e di commozione degli ascoltatori. Un applauso mancato ma dirompente, a legare indissolubilmente una comunità che nel momento più difficile si ritrova stretta a quadrato a difesa di un patrimonio da non lasciar morire, nella garbata indifferenza di un malcerto tutto.
Nella seconda parte di serata, la scena era tutta per Onofri, e con lui, per la compagine che, già dopo così poco tempo, il Direttore sembra già avere tra le mani. La sua Settima Sinfonia, radicata in un’indagine certosina nelle ragioni della pagina, sembrava raccogliere le braci dalle ultime scintille del Concerto, dalla sua incontenibile ebbrezza, e dipanarsi – nitida, tersa, cesellata come vuole chi è abituato a scomporre e ricomporre i dettagli del tutto – attraverso l’audacia delle sue linee. Un’audacia che Onofri cavalcava con rigorosa osservanza del dettato beethoveniano, a partire da frammenti, da cellule ritmiche, ovviamente, ma anche intervallari, chiamate a fare da tiranti segreti alla costruzione dell’intero edificio. E già l’ingresso sull’universo bacchico, irrefrenabilmente vitalistico della Sinfonia vibrava di una tensione già a fuoco, mai compiaciuta nella sua grazia ancora (fintamente) intinta in atmosfere pastorali. Una camera d’attesa dove lampeggiavano già i bagliori di quella danza che, sul filo di una sola nota ribattuta, condurranno nel vivo della Sinfonia, del suo mondo avventuroso, delle sue ossessioni folli ed incomparabili, delle sue struggenti anse di solitudine. Libero dagli onori di casa da riservare all’ospite solista, qui Onofri dispiegava le sue vele e la Toscanini, forte di una solarità mai così palpabile, prendeva il largo, pervasa anch’essa di fiammeggiante ispirazione.