Recensioni - Cultura e musica

Pavel Kolesnikov e Lukas Geniušas, dioscuri del pianoforte

Doppio soggiogante concerto al Festival della Roque d’Anthéron

I francesi lo chiamano “se plonger”. Tuffarsi. Ma a La Roque d’Anthéron l’acqua è presenza marginale, preziosa come lo sono le cose rare. Quella della Durance, il fiume che ne attraversa il territorio, assecondando il saliscendi di colline insieme dolci ed aspre e che arriva – rivolo sottilissimo ma vivo, corrente – a lambire le mura dello Château che sovrasta il paesino, là dove un tempo era il vecchio mulino. Lo smeraldo opaco dell’acqua dell’antica fontana che domina il parco, ora reincarnata a basamento alla della conchiglia acustica che avvolge il palcoscenico en plein air. E, infine, quella spesso selvaggia degli “orages” che all’improvviso giungono a squarciare la torrida estate provenzale trasformando tutto – strade, viale, parco – in un surreale regno fluttuante, preda della furia degli elementi. Ma qui, nei mesi di luglio ed agosto, “se plonger” diventa soprattutto l’immersione nella perfetta sinestesia tra musica e natura, tra incanto ed incanto. Da 41 edizioni, nel cuore di questo placido paesino sperduto nel cuore del Midi, sono migliaia le persone che ogni giorno si riversano nello scrigno dello Chtâeau de Florans, tutti in gioioso pellegrinaggio verso le varie sale di questo immenso teatro senza pareti, sotto le ombre dei platani secolari. Tutti lì per il Festival International de Piano. La folle scommessa di René Martin ed il mecenatismo illuminato di Paul Onoratini, la loro collaborazione avviata nei primi anni ’80 e continuata con i figli di quest’ultimo, rappresentano oggi un imprescindibile riferimento tra gli appuntamenti estivi in Europa, capace di richiamare un pubblico straordinariamente eterogeneo, partecipe ma soprattutto libero dalle spesso asfittiche etichette della forma. Una manifestazione apripista, quella delle prime clamorose annate, che aveva insinuato la necessità di restituire al momento del concerto una naturalezza fatta di genuinità, contatto diretto con l’artista, immersione nell’evento musicale non come momento puro ed astratto ma anche nella sua relazione con lo spazio circostante.

Quest’anno, il secondo dominato dalla mannaia di una pandemia che nella Francia meridionale ha bruscamente rialzato la testa, tanto da far presagire un probabile ritorno a restrizioni già dai prossimi giorni, nel lussureggiante bouquet di fiori rari in scena fino al prossimo 18 agosto, spiccavano, nella seconda settimana di Festival, i nomi di Pavel Kolesnikov e, subito dopo, quello di Lukas Geniušas, protagonisti di due recital “dioscurali” a poche ore di distanza l’uno dall’altro, affini per sottile ricerca ed acuta intelligenza, lontani, per certi versi opposti, per scelte ed approccio. Trent’anni ciascuno o poco più, un curriculum costellato da affermazioni perentorie in alcune tra le massime competizioni internazionali, per anni compagni di sorte al Conservatorio di Mosca nelle rispettive classi di Sergei Dorensky e Vera Gornostaeva, uno sguardo che li colloca tra le personalità oggi più incisive ed interessanti della scena emergente. Geniušas poeta di un canto terso e minuzioso, raccolto nella serenità di uno sguardo in cui lo Schubert degli Improvvisi op. 142 scorreva vibrante ma al tempo stesso riappacificato, limato dei rovelli e degli improvvisi furori che ne increspano la voce. Ma anche torrenziale artefice di una Sonata n°1 di Rachmaninov tutta vampate, trascinante impeto strumentale sempre tenuto a briglia salda con incrollabile, sobria lucidità di conduzione. Kolesnikov, che l’Italia ha scoperto – autentica folgorazione – grazie a Casalmaggiore ed al suo Festival in riva al Po quando il suo straripante talento era ancora a bottega dal Maestro e che ora è artista assoluto, incantatore capace di creare attorno a sé la magia di quel silenzio teso che è marchio identitario del fuoriclasse.

Lo scorso 29 luglio, il suo recital vedeva Chopin alzare il sipario ed abbassarlo, con Mozart al centro, come diamante in un forziere. Grappoli di Mazurke, Valzer, Notturni -  miniature, frammenti in apparente ordine sparso ma in realtà legati da sottili nessi -  accanto alle nitide geometrie delle Sonate KV 310 e KV 331. Nell’impaginato, dunque, l’enigma da sciogliere, la chiave da trovare. Una lettura che poneva i due compositori come estremità di un medesimo nastro, in un dialogo speculare e continuamente rilanciato, sorprendentemente acceso. Chopin sfuggente e filiforme, affacciato sulle terse linee mozartiane, debitore della sua asciutta eleganza; Mozart percorso da una ventata febbrile e tragica che ne innervava il canto e ne smorzava la manierata innocenza. Sguardi convergenti inanellati con sartoriale finezza, sul passo instabile e seduttivo dal tre quarti, a comporre il racconto di un teatro interiore in cui nessuna battuta era scontata, un teatro affidato ad una narrazione sempre sospesa, in punta di dita, in levare. Inafferrabile. Una drammaturgia affascinata dalle ombre, dall’irrequietezza che queste pagine custodiscono nella loro olimpica forma, sotto il cristallino delle loro acque. Un’inclinazione, quella a privilegiare le asimmetrie, l’oscillazione di un rubato sorvegliatissimo e al tempo ardito, che incoraggiava l’incalzare, il montare della tensione interna a queste danze dell’anima più che dei piedi, a farne un folle volo del pensiero, verso una pura quanto fugace esaltazione così come verso l’abisso della fine. Sfaccettature della mutevolezza della labilità dell’esistenza, shakspeariani universi che raccontavano quanto davvero la vita sia breve sogno, avvolta in un cosmico nulla. Le brucianti scintille dei Valzer brillanti; la sghemba, selvatica aristocrazia di Mazurke mai così restie a farsi addomesticare, territori che credi di conoscere a menadito e dove invece a sorpresa arriva il dettaglio che non ti aspetti, la minuzia che ti costringe a rivedere le tue certezze, a ripensare e riposizionare gli oggetti del tuo mondo. L’universo siderale della terza Ballata; disegnato con sensuale severità, quasi con distanza, e l’annunciarsi – lontanissimo – del secondo tema, che mai ci era parso così vicino ad un passo a due di settecentesca grazia, restio ad abbracci ed effusioni eppure motore di un esaltante crescendo emotivo che conduceva all’apoteosi del finale.

Di questa ragnatela di rimandi, in questo labirinto di vicoli comunicanti e misteriosi, Mozart, scolpito con scalpello finissimo per gusto e sonorità, suonava come la sfinge schumanniana, il centro gravitazionale del percorso. Saturnino, divorante nell’urgenza del suo dipanarsi, febbrilmente attratto dalla dissolvenza nei tempi staccati e nella lontananza ormai irreversibile della prospettiva. Un Mozart estremo, internamente svuotato della sua proverbiale arguzia e proteso invece sulle zone più buie del suo essere, già presago della velenosa, trafiggente melanconia che abita le stanze chopiniane. A chiudere il cerchio, l’universo-mondo della Polacca Fantasia op.61, pagina in cui sembravano magicamente confluire tutte le corde emotive e concettuali di una serata di straordinaria intensità. Pubblico soggiogato da tanta nobile, misurata, dolorosa bellezza. Un artista immenso. Chi lo desiderasse, sul sito di Radio France Musique potrà ritrovare l’incanto di questa sera di grazia, ed immergervisi di nuovo. Se plonger, appunto.

Foto di Valentine Chauvin