Il celebre baritono firma la regia del capolavoro pucciniano che ha inaugurato la stagione del Teatro Municipale
Una Bohème iperrealista, che nell’indagine impietosa della realtà trovava il talismano del sogno. Nella regia: mobili raccogliticci e mille tracce di multiformi esistenze; tele da ultimare alle pareti scrostate dall’umidità, fogli sparsi sul tavolaccio, un malandato sofà come letto d’amore e di morte, la vecchia zimarra appesa vicina alla porta, pronta a fare il suo servizio e salire al monte (di pietà) per pagare un dottore misericordioso. Ad illuminare l’ultima soffitta del Quartiere Latino una grande finestra contrappuntata da un abbaino; sulla porta che dà su un buio pianerottolo, un calendario a scandire i giorni. E ancora, la ricostruzione della caotica folla in festa da Momus, la neve già sporca di passi dei primi passanti alla Barriera d’Enfer, nel gelo di un’alba sonnolenta; persino il vacillare – vero - della misera fiamma che dovrebbe scaldare il cordiale, precipitosamente rimediato, per la moribonda Mimì.
Ma soprattutto, una Bohème iperrealista nella musica: risvegliata nella sua essenza più autentica, riportata a nuova, indomita freschezza. Con l’incanto a sorpresa del secondo quadro, dove ad aprire era il suono (vero anch’esso) di una fisarmonica, una melodia di valzer dal sapore dolce e melanconico, che una ragazzetta accenna di fronte al caffè Momus, prima di essere allontanata dalle guardie: il valzer di Musetta. Puccini lo aveva scritto un anno prima, nel 1894, per poi affidarlo al personaggio più plastico e coraggioso della vicenda. Nucci lo ha voluto riesumare, creando un trompe l’oeil sonoro tra l’impasto dell’orchestrazione ed il palcoscenico. Tutti noi, al canto di Musetta, avremmo giurato di risentire in lontananza anche le note dell’accordéon. Ma si trattava solo di un’illusione, l’ennesima che Puccini nasconde nell’opale di questa partitura senza tempo. Una continua scoperta, per il pubblico che affollava il Municipale di Piacenza, lo scorso 22 dicembre in occasione della replica domenicale di quello che era il primo titolo della Stagione lirica 2019/2020.
Leo Nucci, da anni – in coppia con Salvo Piro - firma irrinunciabile di ogni apertura di sipario piacentino, l’aveva annunciato: faremo poesia, e porteremo in scena la voce di Puccini. Autentica, scapricciata, sanguinante di sogni e di miseria, appassionata senza edulcorazioni, umanissima. Nel gelo pungente di una soffitta nella Parigi a qualche ora dal Natale, magistralmente resa dal gioco di luci di Claudio Schmid, la vita sembra intrecciarsi con una verità snudata di ogni paravento: la disperata goliardia dei quattro inquilini che fingono il buonumore per non pensare alla propria pancia vuota, pronti a distruggere le proprie opere per una vampata di calore, l’impercettibile malizia di Mimì, che volutamente spegne il lume prima di annunciarsi a Rodolfo per chiedergli di riaccenderlo. E la sorprendente complessità di Musetta, da subito lì a raccontare ben di sé altro rispetto la macchiettistica figura di femme fatale mangiauomini: il ritratto di una donna vissuta e sfaccettata, che conosce il dolore e l’umiliazione, ne percepisce il riverbero nelle vite altrui e cerca di lenirne i segni con una leggerezza mai vacua.
Niente melensi languori, dunque, ma piuttosto l’affresco a più voci, tra farsa e tragedia, di una vita presa a morsi, gaia e terribile, come solo la gioventù sa imporre. Sotto la bacchetta puntuale di Aldo Sisillo, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Italiana, le giovani voci del Progetto Opera Laboratorio sfilavano in una vera e propria gara di bravura, alle prese con una scrittura che rappresenta per ogni cantante un banco di prova. Eroico il Rodolfo di Azer Zada, in scena nonostante una forte indisposizione che ne ha compromesso la resa, in particolare nel primo atto, ma che non gli ha impedito di dare prova di talento e di quell’intelligenza musicale che consente al cavallo di razza di uscire vincente dalle situazioni più scivolose. Già perfettamente compiute nel loro rispettivo ruolo la Mimì di Maria Teresa Leva e la Musetta di Lucrezia Drei, protagoniste di un’appassionante quanto affatto scontata lettura del loro personaggio, capaci di rivelarne sfaccettature inedite. E da applausi i comprimari: su tutti, il brillante Marcello di Carlo Seo, catapultato sul palco all’ultimo a seguito della rinuncia dell’influenzato Francesco Cascione; e gli ottimi Stefano Marchisio, Schaunard raffinato e preciso, Maharam Huseynov, Colline ironico e graffiante, e Gianluca Lentini, un Benoit in perfetto equilibrio tra ritratto e caricatura. Applausi anche al coro del Teatro, istruito da Corrado Casati, in particolare alle Voci Bianche del Farnesiano di Mario Pigazzini.