Recensioni - Cultura e musica

Quattro archi trionfano al Festival de Piano de La Roque d’Anthéron

il Quartetto Modigliani ed il pianoforte di Bertrand Chamayou in un programma dedicato al camerismo mitteleuropeo

Chi è chi? Parc du Château de Florans. Serata di punta quanto atipica, lo scorso 1 agosto, del Festival de Piano de La Roque d’Anthéron: pubblico delle grandi occasioni, numerosissimo, sugli spalti che abbracciano la conchiglia acustica della scena. Sul palco, l’intimismo raro, da queste parti, di un concerto di musica da camera con il Quartetto Modigliani ed il pianoforte di Bertrand Chamayou. Interpreti tra i più amati della sontuosa rassegna estiva francese, legati tra di loro da un’affinità consolidata da anni di intensa collaborazione, i magnifici cinque hanno sfidato i rischi che l’en plein air sempre comporta, in particolare quando si parla di strumenti ad arco, dando vita ad un appuntamento ad alta tensione emotiva che, dopo l’esordio haydniano con le Variazioni in fa minore Hob. XVII-6 dipanate con la consueta eleganza dal pianista di Tolosa, ha avuto il suo momento apicale nello Schubert di Der Tod und das Mädchen. Toccante approdo di una densa sequenza di pagine precedentemente soffermatasi sul Quintetto op.44 di Schumann, dove Chamayou era splendido motore trascinante con il suo argento vivo, il Quartetto sembrava ben consegnare all’uditorio la sua cifra identitaria.

Un passo indietro rispetto alle caravaggesche tinte di una partitura che sul contrasto vive e soffia, lo sguardo piuttosto proteso ad indagare, sin dal celebre incipit, le ombre, le esitazioni, più che le deflagranti esclamazioni. L’annunciarsi dello scultoreo tema principale, con il violento fortissimo, la strappata dei quattro strumenti, la terzina discendente come cellula-chiave, suggerivano infatti – nel legato pastoso e sorvegliato, accompagnato fino al morire dell’arcata, nell’accurato freno all’abbrivio della corsa, subito impetuosamente in pendenza – la volontà di allestire un dramma senza strepito, annidato in fraseggi meticolosi in cui le due figure antitetiche della vicenda trovavano un’immediata compenetrazione, più complici che eterne avversarie. Quasi un guardarsi allo specchio, anziché un gioco mortale tra chi fugge e chi insegue. Come se tutto fosse già chiaro. La morte e la fanciulla si conoscono, sembravano suggerire gli interpreti; entrambe sono ora l’una ora l’altra. E noi, con loro, come loro, siamo entrambi i poli di questa storia vecchia come il mondo, tanto da non sapere più dove posizionarci rispetto alla geometria del loro avvicinarsi, fiutarsi, corteggiarsi, tra ritrosia e tentazione, fino all’abbraccio mortale dell’epilogo. La morte è la fanciulla, e viceversa. Non possono avere scampo, non c’è altro finale possibile.

Chi è chi, dunque? E l’ordito di questo parlarsi sommesso, garbato, elegante, se da un lato mitigava le tinte sanguigne della vicenda, dall’altro ne scavava le pieghe interne, ne riscopriva dettagli da una prospettiva meno spettacolare, più scorciata, e per questo intrigante. Tutto nel giro di compasso di una stanza, nessuna escursione troppo ampia. Il passo strascicato del secondo movimento, ad esempio, il suo canto a labbra socchiuse, la sua preghiera laica davano alla ruffianeria della Morte, alle sue parole melense, una grazia consolatrice, la promessa di un sollievo che redime, che riscatta. Era lei, nella restituzione del Modigliani, la fanciulla sfigurata ed irresistibile del Destino una volta gettata la maschera, nel dipanarsi di variazioni in cui le anime del Quartetto, diverse e complementari, prendevano di volta in volta la parola, in un processo di progressiva sublimazione e di millimetrica intesa, come un unico strumento polifonico che nel soave Trio dello Scherzo trovava la sua massima compiutezza. Ed anziché sciogliere l’enigma, il vento freddo che sferzava leggero sul turbine dell’ultimo movimento, con la danza macabra che segna il trionfo della Morte sulla vita, perdeva i tratti solitamente distruttivi che lo caratterizzano a favore di una corsa verso l’unica certezza possibile. Nello spazio immenso del palco dell’Auditorium, una serata di grande, coraggioso camerismo in cui erano i preziosismi a dire la caratura di questa formazione, preziosismi peraltro già còlti nello stringente, appassionato dialogo intessuto nel Quintetto schumanniano con Chamayou, tra imperiosi slanci ed altrettanto struggenti oasi di un lirismo ancora intinto nel mondo dei Lieder che in quegli stessi anni aveva visto Schumann produrre i suoi più celebri cicli, fino alla sorprendente coda in cui, nell’entusiastica temperie che anima l’ultimo movimento, affiora, autentico coup de théâtre, lo spirito di Bach con il fugato che suggella il viaggio. Applausi torrenziali e commozione per quattro archi capaci di espugnare il tempio del pianoforte.