Recensioni - Cultura e musica

Reggio Emilia: Cavalleria Rusticana e Pagliacci, capolavori al femminile

Felice ripresa dell'allestimento bolognese firmato da Emma Dante e Serena Sinigaglia

A Reggio Emilia, tappa di giro dall’applaudita messa in scena bolognese dello scorso dicembre, venerdì 7 e domenica 9 febbraio scorsi approdava al Teatro Valli l’inossidabile dittico Cavalleria Rusticana – Pagliacci. Un classico di quel filone comunemente contrassegnato con l’etichetta di “verismo” ma che, come sempre, più segretamente scalpita di ben altri e più cangianti umori. Un ritorno all’antico, questo accostamento di atti unici da sempre in cerca dell’altra metà della mela con cui dividersi la scena, contrassegnato da scelte – le due regie in primis – che, lungi dal ripercorrerne sommariamente vicende e atmosfere, ne scavavano indagini profonde, coraggiose, capaci di suggerire allo spettatore inedite, assonanti sfumature.

A partire dal capolavoro di Leoncavallo, che una magnifica Serena Sinigaglia immaginava come una sorta di naturale prosecuzione di Cavalleria. Anzi, l’una quasi il verso dell’altra: anziché calare il sipario sul tremendo delitto d’onore in tempo di Pasqua, la regista milanese sceglieva di rovesciare gli equilibri lasciando illuminata la scena e portando alla luce una sorta di esibito “dietro le quinte”, tra manovalanze frenetiche, scenografi impettiti e comparse peripatetiche, in attesa di entrare in scena. Mentre il Prologo – un ottimo Stefano Meo, prima altrettanto incisivo Alfio dal cuore nobile ed impietoso – srotolava in breve arte e vita di un pagliaccio, attorno a lui prendeva corpo la vicenda: sbaraccate croci e tabernacoli della Pasqua verghiana, smontati altari e altarini, ecco spuntare file di grano arroventate dal sole. La Sicilia carnale ed inebriante di Cavalleria lasciava qui spazio ad un imprecisato Sud agostano, ad una desolante e dimenticata periferia del mondo. Come palco, un tavolaccio adagiato nel nulla, chiamato a regalare sogni ma in realtà ancor più triste della misera tristezza. C’era già il senso ultimo della storia, la sua profezia, nello squallore di questa tranche de vie disegnata con commosso disincanto, subito sfumata dall’irrompere delle maschere annuncianti lo spettacolo serale, maschere buone più a nascondere i dolori personali che ad invitare all’evasione: la bamboleggiante Colombina dalle movenze di marionetta e dai capelli di stoppa, lo storpio Tonio, macchiettistico in scena, deforme nella realtà, il rude Canio celato in più miti tratti di Pagliaccio. “L’arte e la vita non son la stessa cosa”, si dice. Ma troppo spesso l’una chiama l’altra, ne riversa o ne anticipa sentori. E, quando vuole davvero colpire al cuore il pubblico, sa di dover bussare alla porta della vita per attingere da essa la forza vitale del suo gesto. Così sarà anche per questa tragica storia che nella più spuria prosa ha il segno del suo struggente lirismo. Nedda, la piccola colomba sottratta bambina alla strada dal rozzo e possessivo amore di un pietoso Canio, sarà sacrificata in scena, davanti ad un pubblico assiepatosi con sedie di paglia attorno al palco improvvisato, incapace di comprendere fino in fondo il confine tra realtà e finzione. Sua colpa l’aver sfiorato la chimera di un’altra vita possibile, quella promessale dal giovane Silvio, un puntuale, intenso Vincenzo Nizzardo. Audacia fatale per una maschera, irraggiungibile per una donna a cui la vita aveva già tracciato la sorte.
Carmen Solis, arrivata in corsa a sostituire Carmela Remigio, ha regalato al suo personaggio le corde di una complessità, pur ingenua, indecentemente intenzionata a scardinare il proprio ruolo di donna subalterna al capriccio di un maschio padrone. Quando smetteva gli abiti di scena, la smagliante vocalità si turbava, nel vestito rosso di neorealistica memoria, sotto il peso delle emozioni, mentre, con gesti che non è possibile non associare simbolicamente alle troppe donne vittime di amori sbagliati, raccoglieva papaveri scarlatti nel grano bruciato e fantasticava progetti di conquistata felicità. L’adesione del soprano spagnolo alle corde della sua Nedda trovava un non proprio bilanciato contrappeso nel Canio di Stefano la Colla, perfetto nel tratteggiare i contorni più accesi e disperati del suo Pagliaccio anche se non altrettanto preciso nel portarne a galla le implicazioni di un dilaniante rovello interiore. A lui, con il coltello ancora grondante del sangue dei due innamorati fedifraghi, imbarazzante maschera tragica di se stesso su una scena sghemba e livida, purtroppo, veniva affidato il suggello della storia, quel “La commedia è finita!” in realtà destinato a Tonio.  In buca, la bacchetta di Frédéric Chaslin, nitida e puntuale nel tenere insieme i fili di questo intrigo anche musicale, sembrava più attenta a condurre la nave in porto senza eccessivi pericoli che a stanare, dalla brava Orchestra del Comunale di Bologna, quelle tinte – pericolose, certo, ma irrinunciabili – che rendono l’opera quel che è.

E arriviamo alla Cavalleria immaginata da Emma Dante. Un omaggio viscerale quanto intimo ad una Sicilia disegnata quasi a memoria, più attento a rievocare atteggiamenti sociali e culturali che a ricostruire scenari didascalici. Una Sicilia astratta e magica, sonnambula di passione e di follia ed imbevuta in retaggi in cui riti sacri e profani si aggrovigliano in un intrico impossibile a sciogliersi. L’avevamo già applaudita, questa regia itinerante, al Ponchielli di Cremona, la scorsa stagione. Oggi, a più di un anno di distanza, anziché aver perso vigore, questa Cavalleria sembra averne acquisito. Ancor più vivido l’affondo nelle radici di una classicità tutta preziose citazioni, ancor più avvolgente la sua patina rispetto al febbrile incalzare della drammaturgia. La passione di Turiddu, insieme peccaminoso amore verso la coniugata Lola ed estrema sofferenza di sacre implicazioni – sfociante nel più classico un regolamento di conti firmato da Alfio coltelli alla mano – aveva la sua allegoria nel visionario passaggio in scena di un Cristo - danzatore schiacciato sotto il peso della croce, frustato da un crudele centurione e seguito da un gruppo di tre donne piangenti avvolte in manti dai colori rubati a Pontormo. Una Pasqua che gettava ombre crude in cui tutto era peccato ed espiazione, tutto era già scritto. Nedda - una Sonia Ganassi di straordinaria plasticità, così vera e nobile da trascinarsi appresso anche una conduzione fin troppo prudente – era donna già penitente, già vestita a lutto ancor prima dell’urlo nero che si sarebbe alzato alla fine, da fuori scena. Un incanto. E nero era tutto: lo sfondo, i vestiti di festa della folla pronta a prender la Messa solenne, le donne con il velo e gli uomini con la coppola, le vesti severe di mamma Lucia, una Claudia Marchi bravissima a tenere in equilibrio le dissonanti corde di dignità ed angoscia, quando il Turiddu di un discreto Angelo Vilari le chiedeva l’ultimo bacio, già impregnato dei sudori della morte. Una sacra rappresentazione, senza tempo.