Recensioni - Cultura e musica

Salisburgo: Standing Ovation per lo Schubert di Arcadi Volodos

Con un programma che comprendeva anche Liszt, Brahms e Mompou il pianista russo conquista il pubblico del Festspielhaus. 

Si siede al pianoforte e subito infila l’ago magico nella cruna del racconto. Un racconto cucito a mano, con una sapienza artigiana che predilige il lasciarsi guardare dall’interno, nelle pieghe invisibili delle sue cuciture. Lo Schubert di Arcadi Volodos - da anni incamminato in un sentiero rivolto ad un pianismo fatto di rare, preziose condivisioni - è ogni volta un viaggio che apre all’inconfessato, non di rado all’inconfessabile. Voci da lontano che appaiono tra le ombre della sera. Ombre di una narrazione che si muove febbrile, confondendo le carte del tempo, oscillando tra i piani del passato e del presente, tra memoria e trasalimento. Il racconto di un sonnambulo, di un veggente che, a labbra socchiuse, conduce là dove non siamo mai stati.

A Salisburgo, di fronte ad un Großes Festspielhaus completamente assorbito dal sortilegio, i sei Moments Musicaux D780 erano plasmati come cera, grondanti di una tenerezza aggrappata – fragile, ostinata – ad un incombente senso di tragico, dove era il taciuto, o il sottaciuto, quel che più contava; creature vibranti nel loro tumulto controllato, ricomposto, accarezzato con lo sguardo affacciato sul suo abisso, come sulla bocca di un vulcano. Il Moderato iniziale, il più schubertiano di tutti, via via sciolto nell’abbandono avvolgente del suo secondo tema, si inoltrava oltre la cortina di quel giardino segreto già immerso nel passo del viandante, speranzoso e malcerto, per approdare, per intima risonanza, nella ricapitolazione, intrisa di rimpianto, di occasioni mancate, del successivo, nel suo sguardo retrospettivo fatto di stilettate sottili, quasi senza pedale, e dello squarcio di singhiozzi disperati, scosso da folate che ne sconvolgevano, seppur per un solo istante, l’intima reticenza. Un pianismo, quello dell’artista russo, appeso a poche note, squadernate in una gamma di colori ipnotica, a frammentare la luce in un’infinitesimale gamma di rifrazioni fino a lambire, catturandolo, il silenzio.

Nella sala dall’acustica millimetrica, scavata nella pancia della montagna, la voce di Schubert era un messaggio iniziatico da custodire, il dono di un fuoco da tenere acceso. Per pochi. Per noi. E il celebre Allegro moderato, quasi fischiettato nella mente, con il pensiero, nel vento di un’aspra, ruvida nostalgia, solo a tratti rotto dal montare della commozione, con la sua anima ribelle imbrigliata in un’asciuttezza cui faceva da contrappeso il picaresco quarto, con la sua cavalcata di accordi puntati, la sua moltitudine di voci strette attorno ad un unico destino. Dopo Lupu, oggi nessuno possiede nelle dita la capacità di disporre di così tanti piani narrativi, gradazioni in grado di creare in simultanea un teatro dell’anima fatto di protagonisti, comparse, sfondo, il tutto avvolto nella patina di un corpo sonoro così carnale da attraversare da capo a fondo la sala, anche quando flirta con pianissimi così impercettibili da sembrare irreali. Su ogni dito, il filo di un canto. Onirico, turbato e al tempo perturbante sotto l’aria bonaria, il conclusivo Allegretto con Trio, a chiudere, con le sue insinuazioni, il cerchio aperto dal primo, era a sua volta ponte verso le due trascrizioni lisztiane, la struggente Litanei dai Geistliche Lieder e Der Müller und der Bach, dai Müllerlieder. Piccole storie, miniature traboccanti di vita da cui Volodos distillava verità universali. La prima con la sua preghiera adagiata sul velluto cangiante di un accompagnamento di impalpabile bellezza, la seconda dilatata in un recitativo sospeso in cui le brucianti domande dell’uomo trovavano provvisorio conforto nel mormorio partecipe della natura. E un universo di piccole storie radunate in un abbacinante affresco abitava nell’esito estremo della D 959. Qui Volodos portava il frammento, l’inquietudine del dettaglio, riponendolo, come un tesoro, nell’ampia cassaforte di una forma dagli spigoli vivi, ancora fortemente beethoveniana nell’’involucro rigoroso, incalzante, asciutto. Un’armatura che tuttavia vibrava segretamente nel punteggiare incessante di dubbio, estasi, di “e se?” fino a scricchiolare pericolosamente sotto il peso delle emozioni. Dentro la fortezza dell’impianto, Volodos scavava una nicchia di disarmante introspezione, un corpo a corpo doloroso, trasognato, tra fili e profili affioranti da una tela increspata dal segreto pulsare di un’amara, rustica ironia. In questa visione, lo struggente Andantino portava con sé l’odore della fine ormai vicina, nel passo trattenuto, estenuato, non solo per stanchezza ma per assaporare un momento di più il profumo della vita, fino ad inebriarsene, nel folle, delirante soliloquio dei cromatismi centrali. E quando il tema ritornava, con il suo passo da Wanderer, l’accompagnamento punteggiato, ipnotico, sembrava ghiaccio secco. Disidratato, disanimato. Un cuore in inverno, riportato alla vita dall’illusorio capriccio dello Scherzo, evanescente come un valzer mancato, e risucchiato dal Rondò finale: riconciliante, ruffiano nella sua bonaria luce primaverile ancora intrisa di odori, desideri, giovinezza.

Un inno alla vita che, come ben svelava la turbinosa coda, era un tuffo nel precipizio, a toccare ancora una volta il fuoco e a domarlo. Applausi e una (doverosissima) standing ovation di commossa gratitudine, ricambiata dall’artista con una rosa di bis. Ultimo regalo di un Maestro sommo di stupefazione, capace di condurre ognuno dei presenti nelle epifanie che attraversa.