La pianista ucraina ha chiuso la stagione concertistica estiva di Castiglione delle Stiviere
Nel 1992, quando il suo talento straripante aveva dettato la linea trionfando al Concorso Busoni di Bolzano, in un’edizione rimasta nella storia, Anna Kravtchenko era una ragazzina di 16 anni. Fragile, timida, acerba nell’aspetto ma, una volta di fronte allo strumento, monumentale, posseduta da un istinto che era un distillato di lirismo e sofferenza, graffio e innocenza. Il clamore suscitato nel pubblico che stipava la sala del Conservatorio, prova dopo prova – minuti e minuti di applausi, commozione, gratitudine da parte di ascoltatori divenuti ben presto tifoseria – era qualcosa che solo i grandi sanno suscitare.
Oggi, ad anni di distanza, il suo pianismo – definito “miracoloso” da un quotidiano olandese – continua, decantato attraverso il tempo e l’esperienza, ad imporre il suo passo: rapinoso, struggente, così tracimante da fagocitare al suo passaggio tutto ciò che trova, curvando la pagina all’urgenza della propria narrazione. Sabato 26 agosto, con un recital che ha visto un folto pubblico affluire nel cortile di Palazzo Pastore, l’interprete ucraina ha chiuso la stagione musicale estiva di Castiglione delle Stiviere. Un suggello di grande intensità, come hanno sottolineato l’assessore alla Cultura Massimo Lucchetti e il Direttore Artistico della rassegna Stefano Maffizzoni, in cui era la logica della pagina breve, del frammento come universo gravido di rivelazioni, a tracciare la linea del racconto, a partire dal confronto, tutto schumanniano, con cui la serata si è aperta. Un dialogo a ritroso tra le pagine estreme dei Gesá¼…nge der Frühe, i Canti del Mattino, e quelle di Carnaval, ovvero tra le voci ormai proiettate sull’ultima stagione della vita e quelle del cenacolo di fratelli di lotta e di ideali che, nell’op.9, sconfiggono la mediocrità con l’afflato poetico. Un accostamento di avvincente pregnanza che Kravtchenko approcciava con il guizzo sanguigno che ne contraddistingue la cifra, addentrandosi nella fitta polifonia dei cinque Canti con un fuoco che, più che guardare all’inestricabile mistero di una dimensione ormai trasognata e rarefatta, sembrava annunciare la folle, gioiosa cavalcata di sagome che compone l’affresco di Carnaval. Paganini, Chopin, i due custodi del ciclo Florestano ed Eusebio, più in controluce, le anime di Schubert e (forse) di Mendelssohn, l’amore del momento e quello del destino, quella Chiarina che, con il nome di Clara, diventerà moglie e musa. Una wunderkammer nella cui teca, in una manciata di note, Schumann cattura con infallibile esattezza l’essenza più pungente di ognuna delle venti crisalidi del ciclo, sia esso volto o maschera; tratti che, l’altra sera, anziché spiccare nelle singole peculiarità distintive di ogni tessera finivano risucchiate nel fatale gorgo che l’interprete innescava, in un crescendo inesorabile, sin dal Préambule iniziale.
Altra temperatura per le miniature tratteggiate nelle dodici Stagioni di Cajkovskij, bozzetti di una Russia maestosa e placida, senza tempo, colta non nella fugacità dell’istante ma nella persistenza di sguardi e pensieri quotidiani. Musica di radici profonde, quelle che non gelano, dell’origine, dei ricordi, ma anche musica di un’infanzia senza tempo, che Kravtchenko esplorava con devozione e con quell’incanto che, a fine serata, le valeva applausi degni di tre bis. Ancora due cammei schumanniani e, a congedo, il pizzo tutto trilli e sottigliezze di una Sonata di Scarlatti.