Ennesimo successo per la ripresa della Traviata di Carsen alla Fenice
Da alcuni anni il Teatro La Fenice sta attuando una politica più simile a quella dei palcoscenici mitteleuropei che di quelli italiani, ovvero il riprendere sistematicamente all’interno delle stagioni alcuni spettacoli di repertorio. Questa scelta consente all’ente di aumentare in maniera consistente il numero delle alzate di sipario contenendo i costi e permettendo così di coprire periodi, quali ad esempio i mesi di settembre e ottobre, in cui solitamente nei teatri si programma poco o nulla. Se poi il titolo intorno al quale ogni anno vengono impaginate le varie proposte di questo scorcio di stagione è l’eccellente Traviata di Robert Carsen e Patrick Kinmonth il successo di pubblico è garantito a priori.
La produzione cui ci riferiamo è quella che inaugurò nel 2004 la Fenice ricostruita e che, nonostante sia stata ripresa praticamente ogni anno, non dimostra segni di invecchiamento.
Il regista canadese ha concepito uno spettacolo estremamente moderno, incentrando la vicenda di Violetta intorno al tema del denaro. Ogni azione è legata ai soldi, onnipresenti nel corso di tutti e tre gli atti, partendo dal preludio, nel quale la protagonista riceve i suoi clienti e da questi si fa pagare, proseguendo nel secondo atto, la cui prima parte si svolge in un prato di banconote, per giungere al terzo in cui anche l’”amico” Grenvil si fa pagare la visita.
Certo, una lettura simile tende a focalizzare l’aspetto più crudo e più cinico -ma se vogliamo anche più attuale- della vicenda, lasciando in secondo piano la componente più melodrammatica e sentimentale, che pure è presente nell’opera, ma questo a mio avviso non costituisce assolutamente un limite. Tutta la regia è gestita con estrema coerenza e senza sbavature o gratuità, senza contare che Carsen, da talento quale è, pur giocando sulla carta della crudezza riesce comunque a costruire momenti di grandissimo teatro, che poi è quello che si chiede ad un allestimento d’opera: Violetta che conclude il “Sempre libera” avvinghiata dalla lussuria di Douphol; ”Amami Alfredo” intonato sotto una pioggia di banconote; per non parlare del bellissimo finale in cui sull’apparente guarigione di Violetta le luci di platea timidamente si accendono per poi spegnersi bruscamente al momento della morte, mentre due operai entrano in scena per riprendere il loro lavoro incuranti di quanto sta accadendo e Annina se ne va portandosi via furtivamente la pelliccia della sua padrona. In sostanza una lunga serie di immagini che restano inevitabilmente scolpite nel ricordo e connotano uno dei più moderni ed efficaci allestimenti del capolavoro verdiano degli ultimi anni.
La replica cui abbiamo assistito, l’ultima di questa stagione, vedeva schierato un cast che, per posizione in locandina dovremmo definire “il secondo” ma che, per il risultato conseguito, avrebbe tranquillamente potuto essere primo a tutti gli effetti.
Gladys Rossi dimostra di avere sia la voce che il temperamento per essere una Violetta di sicuro interesse. Il timbro è bello e corposo, nonostante a volte tenda ad assottigliarsi nel registro acuto, e le agilità sono eseguite con un’ottima padronanza dello strumento. Questo le consente di gestire molto bene l’evoluzione del personaggio dai virtuosismi del primo atto al registro più drammatico del finale. Tra i vari momenti particolarmente riusciti segnaliamo l’”Addio del passato” eseguito con il “da capo” e la seconda parte del duetto con Germont padre.
Al suo fianco l’Alfredo di Ji.Min Park ha sfoggiato un bel timbro chiaro ed una grande facilità a gestire il registro acuto, brillando anche in quei passaggi, quali ad esempio la cabaletta “O mio rimorso. Oh infamia”, in cui la tessitura non facilita il compito. Unico limite, peraltro ravvisabile in molti cantanti provenienti dal sud-est asiatico, una certa freddezza nell’emissione e la mancanza di un colore squisitamente verdiano. Caratteristiche queste ultime che al contrario fanno di Simone Piazzola uno dei baritoni più interessanti della sua generazione. Il timbro è magnifico, pieno, rotondo, ed anche l’interprete si è mostrato estremamente attento nella resa di un personaggio che, per questioni anagrafiche, sulla carta sarebbe ancora lontano da lui. Il suo secondo atto è un piacere da ascoltare, coronato da un “Di provenza il mar il suol” giocato sulle sfumature, complice l’eccellente lavoro di accompagnamento compiuto in buca dal direttore Diego Matheuz.
Valida la schiera dei comprimari capitanata dall’ottimo Gastone di Iorio Zennaro al quale si affiancavano l’esperto Douphol di Armando Gabba, l’efficace Flora di Annika Kaschenz e la funzionale Annina di Marina Bucciarelli.
Alla testa dei complessi della Fenice, in un’esecuzione sostanzialmente filologica che ha riaperto tutti i tagli di tradizione eccezion fatta per il da capo di “Ah forse è lui che l’anima”, il giovane Diego Matheuz ha confermato l’ottima impressione che già avevo avuto in Rigoletto la scorsa stagione, dimostrando una particolare affinità con il repertorio verdiano. La sua traviata ha sì il piglio della bacchetta giovane ma allo stesso tempo conosce momenti di introspezione ed attenzione alle sfumature che la allontanano da qualsiasi interpretazione di routine.
Al termine un teatro esaurito in ogni posto ha decretato il pieno successo della rappresentazione rinnovando l’appuntamento per il prossimo settembre.
Davide Cornacchione 30/09/2012