Recensioni - Cultura e musica

Siegfried alla Scala: freddo in scena, rovente in orchestra

La terza tappa del Ring scaligero caratterizzata da una regia simbolica ed un po’ algida ma da un’esecuzione musicale di grandissima intensità.

Dopo lo sbilenco e per alcuni versi fastidioso Rheingold e la più efficace ma perfettibile Walküre, ha debuttato alla Scala Siegfried, terza tappa del Ring firmato Barenboim-Cassiers che vedremo a giugno nella sua interezza… a 25 anni dall’ultimo allestimento in Italia (Torino 1988)!
Lo spettacolo tutto sommato convince ma non entusiasma, ed infatti, nonostante ormai manchi solo il conclusivo Götterdämmerung, l’idea di tornare a rivedere i quattro titoli nell’arco di una settimana, come Richard Wagner prescriverebbe, non mi ha ancora conquistato.
 

Nel progetto del regista Guy Cassiers l’elemento caratterizzante di Siegfried è il metallo, infatti protagonista di quest’opera è Notung, la spada. Tutto il primo atto è ambientato all’interno della fucina di Mime ed incentrato sul problema della sua forgiatura. Sigfried solo sarà in grado di compiere quest’impresa e quindi da quel momento lui e la spada diventeranno un’unica forza in grado di uccidere Fafner e, soprattutto,  spezzare la lancia di Wotan decretando la fine degli dei. Di metallo è quindi la complessa struttura che funge nel primo atto da fucina di Mime e di questo elemento è anche la foresta del secondo atto, realizzata tramite un suggestivo gioco di catene e luci da Enrico Bagnoli.
Altra importante funzione è svolta dalle proiezioni di Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseeler che però,  a causa della loro onnipresenza, tendono ad inflazionare anche le idee più efficaci e visivamente impattanti, quale ad esempio lo stormo di corvi che accompagna ogni ingresso del Wanderer.
Tutta la regia si basa quindi su una lettura perlopiù simbolica ed intellettuale della vicenda, come d’altronde era avvenuto anche nei due capitoli precedenti, ponendo in secondo piano l’umanità dei singoli personaggi. Va però aggiunto che il ritorno di alcune soluzioni già apparse nelle opere precedenti inizia a far trasparire un’idea di unitarietà, come ad esempio i fili rossi che rappresentano  il sangue versato ogni volta che muore qualcuno, oppure i ballerini - la cui apparizione è stata sicuramente meno irritante rispetto al Rheingold - di cui si sta delineando la funzione di “potenza dell’anello”. Entrati in scena come personificazione astratta del drago, una volta ucciso Fafner e quindi riconquistato l’anello da parte di Siegfried i danzatori sono diventati una sorta di cortina protettrice dell’eroe e lo hanno circondato sino alla conclusione dell’atto,  secondo un progetto che sulla carta sarebbe risultato intrigante ma che si è concretizzato in  una serie di coreografie che risultavano fini a se stesse.
Nel complesso efficaci i costumi in stile neo-punk di Tim van Steerbergen tra cui spiccavano i bellissimi abiti femminili (Erda in primis) mentre risultava abbastanza goffo il Wanderer intabarrato e coperto di pelli di animali.
Se la regia è stata caratterizzata da soluzioni di alterna efficacia, dal punto di vista musicale invece abbiamo potuto ascoltare un Siegfried di fronte al quale  anche a Bayreuth si sarebbero inchinati.
Che Daniel  Barenboim sia uno dei massimi interpreti wagneriani viventi è cosa ormai risaputa. Il suo Wagner si riallaccia alla grande tradizione dei Knappertsbusch e dei Solti passando però attraverso il lavoro di analisi operato da Boulez e da questa sintesi scaturisce un suono estremamente variegato e duttile ad ogni esigenza narrativa. L’orchestra racconta senza mai perdere la tensione del dramma ma allo stesso tempo senza aver mai bisogno di quegli eccessi che sfocerebbero in inutile retorica.
Al fianco del direttore argentino si è esibito un cast eccellente che ne ha perfettamente assecondato la lettura. Lance Ryan non ha il timbro squillante dell’heldentenor ma ha linea di canto ferma e solida e timbro estremamente versatile, cui si aggiungono anche ottime doti recitative. Doti grazie alle quali Peter Bronder ha delineato un Mime da antologia. Il suo nibelungo ha mantenuto la viscidità del personaggio staccandosi però dal cliché di ispirazione yddish cui abbiamo più volte assistito, per non parlare dello straordinario fraseggio grazie al quale ha potuto cesellare ogni singola battuta.
Morbido nel timbro e convincente il Wanderer di Terje Stensvold, come efficace, più scenicamente che vocalmente, è stato l’Alberich di Johannes Martin Kranzle.
Eccellente anche il settore femminile a partire dalla Brünnhilde di Nina Stemme che, seppur limitandosi ad un duetto di “soli” 40 minuti ha pienamente confermato le doti che già avevamo avuto modo di apprezzare in Walküre. Convincenti anche la regale  Erda di Anna Larsson e l’uccellino di Rinat Moriah.
Al termine il pubblico ha risposto tributando applausi scroscianti a tutti gli artefici della parte musicale con punte d’entusiasmo per Barenboim Ryan e Bronder.

Davide Cornacchione 4/12/2012