Recensioni - Cultura e musica

Sokolov: l'arcano incantatore

Il pianista russo in concerto al Teatro Regio di Parma

Sokolov l’arcano incantatore nell’appuntamento probabilmente più atteso del cartellone della Società dei Concerti di Parma. Nel gioco illusionistico di una digitalità da prestigiatore, affondata nella carne viva del tasto tanto da produrre pianissimi come un soffio, eppure capaci di correre, filiformi, lo scorso 27 marzo, fino in fondo alla platea, l’armatura barocca evaporava, immateriale, leggiadra, e l’avvincente carrellata di pagine tratte dal catalogo di Henry Purcell, si elevava ad impercettibile frullo, a puro battito d’ali. Il sol maggiore del Ground in Gamut Z. 645 a fare da sipario ad un arazzo di abbacinante bellezza, in cui, rammendati con filo prezioso, scorrevano, bidimensionali nella loro enigmatica espressione di maschere mai rivolte verso lo spettatore, profili e sagome, ombre cinesi, anonime comparse. Richiamata da un sottile gioco di costellazioni tonali, giungeva, saturnina, la ricercata Suite n°2 in sol minore Z. 661, e, oltre le trine del sipario, sulla scena calava la luce del Prelude, narrazione per voce sola, soliloquio tutto esitazioni, slanci di verginale passione, vampate di fremente pudore. Un teatro interiore, dipanato quasi interamente su una corda; un teatro mistico di fronte al quale lo stesso interprete appariva, più che artefice, devoto, abnegato artigiano intento a confezionare universi miniaturizzati nella cui miracolosa compiutezza tutto si tiene. Nella sequenza di danze impettite e vagamente rustiche, concettuali e più timidamente seduttive, ad affiorare era il simulacro di un mondo inafferrabile, evocato in punta di fioretto. I suoi velluti, ma anche i suoi tarli, i tormenti segreti annidati nell’Allemanda dalla Suite in la minore Z. 663. Un mondo visto da lontano, da altrove, con il piglio aristocratico del Corant, lasciato volare a spago breve e nervoso, e gli echi popolareschi dell’Hornpipe, con il timbro flautato di un pianoforte tramutato in lezioso organetto. Oltre l’orizzonte immaginifico disegnato da Purcell nei suoi trentasei anni di vita, quello – per molti aspetti speculare – di un secolo posteriore, di Wolfgang Amadeus Mozart. E dopo la lunga escursione nelle mirabilia ancora intrise di elisabettiana grazia, l’affacciarsi della voce mozartiana attraverso l’affabile atmosfera che pervade la Sonata KV 333 e, soprattutto, attraverso le desolate distese di dramma steso a grumi che abita l’Adagio K.540, pagina già avvolta dalle ombre del silenzio, della fine, a trentasei anni non ancora compiuti, paradossalmente faticava a farsi largo, con le sue pungenti irrequietezze, con la sua drammaturgia pulsante, nella luterana visione dell’interprete. Nel cannocchiale rovesciato di Sokolov, nella sua personale geografia, i pianeti lontani, i paesaggi più astratti, trovano sulla cordiera del pianoforte una tinta e una risonanza totali, capaci di restituirne a tutto tondo il gioco delle parti; mancava invece qualcosa – il gioco, il sottile piacere di uno sguardo di furtiva complicità, il baleno di un pensiero balzano e, perché no, malizioso – a questo Mozart, nella pronuncia di quella sua grammatura speziata, mercuriale, che ne catapulta la scrittura in una strumentalità insinuante, più dichiaratamente corporea, seppur tenuta a bada nell’olimpico giardino della forma. E, come ad ogni concerto del pianista pietroburghese, a suggellare l’intenso percorso di ascolto, arrivava una cascata di bis, a partire dal secondo Intermezzo op. 117 di Brahms, incastonato tra la meraviglia di due sfuggenti Mazurke chopiniane, proseguendo verso il lirismo commosso di Bach trascritto da Siloti fino ad approdare, come in un magico rituale, verso il sesto, definitivo bis: lo Chopin lapidario del Preludio op.28 n°20. Una torrenziale cascata di suono, di dramma dentro a cui batteva l’eco remota di un canto a labbra socchiuse. Applausi scroscianti, accolti con la consueta, imperturbabile, ossequiosa gratitudine. Non una parola, non un sorriso. Solo musica. Dall’inizio alla fine, nell’algebrica, ossessiva traiettoria di serate sempre uguali e sempre diverse in cui i numeri custodiscono, e rivelano, l’ordine cosmico del cielo di Sokolov.