Recensioni - Cultura e musica

Somewhere

Angoscia esistenziale e impotenza a vivere di un divo di Hollywood per il film premiato a Venezia…ma è vera gloria?

Un film di Sofia Coppola.
Con Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Karissa Shannon, Kristina Shannon.
Jo Champa, Alexander Nevsky, Laura Chiatti, Simona Ventura, Philip Pavel, Julia Melim, Brian Gattas, Nino Frassica, Taylor Locke, Alexandra Williams, Rich Delia, Valeria Marini, Alden Ehrenreich, Susanna Musotto, Paul Greene, Paul Vasquez, Robert Schwartzman, Caitlin Keats, Benicio Del Toro, Michelle Monaghan
Drammatico, durata 98 min. - USA 2010. -

Del film della Coppola le scene più belle, secondo me, sono la prima e l’ultima, in cui una Ferrari, il simbolo della ricchezza e della celebrità raggiunte, percorre prima un circuito chiuso e una strada deserta, e poi si ferma, sfarzosa e vuota come la vita del suo protagonista.
Johnny Marco (il bravo Stephen Dorff) trascorre le sue giornate fra  conferenze stampa, sedute di trucco per effetti speciali (scena quasi da film horror), feste insulse, sesso compulsivo e/o voyeuristico, come la scena con le due gemelle che si esibiscono nella lap dance, e che lui osserva per poi addormentarsi. L’unico aggancio con un po’ di emozione vitale  è il tempo che trascorre con la figlia, deliziosamente interpretata da Elle Fanning, figlia momentaneamente abbandonata da una madre assente quanto il padre. Quando la figlia parte per un campo estivo, davanti a Johnny Marco si spalanca una voragine esistenziale, ma, anche nel finale sospeso, non si sa se il protagonista abbia raggiunto una nuova consapevolezza.
C’è sicuramente molto di autobiografico nel film della Coppola, figlia privilegiata di cotanto padre, e viene in mente la frase che Almodòvar fa dire nel film “Tutto su mia madre” all’attrice di teatro “il successo non ha né colore né odore né sapore”…spenti i riflettori della ribalta si ritorna nella grigia quotidianità, in cui le persone che ti circondano sono o adulatori o nemici. E i luoghi in cui abiti, alberghi lussuosi ma tristi, ti svuotano ulteriormente di identità.
 Riconosciuto questo e le qualità registiche della Coppola nell’abilità di rappresentare i silenzi e le pause in una “cornice” essenziale e densa di atmosfere,  non mi pare che però meritasse il massimo premio a Venezia.
Che cosa si vuol dire con questo film? Che la vita di un divo è in realtà vuota e noiosa e quindi da non invidiare? O si è voluta fare una seduta di autopsicoanalisi d’autore? O forse ognuno si può immedesimare per una sofferta riflessione esistenziale?
Non vorrei sembrare banale, ma penso che i cassintegrati e i precari tutti apprezzerebbero uno o due anni di questa vita vuota e lussuosa per capire come si possano passare le giornate non preoccupandosi dei soldi che non si hanno. E poi, se è una vita così insulsa, perché non abbandonarla e andare volontari in zone povere e dimenticate?
E’ un paradosso, certo, ma, con tutta la stima che abbiamo per la Coppola,  forse lei non è una “moral guidance” come Clint Eastwood.  E neppure una che usa il mezzo cinematografico come un bel giocattolone, alla stregua di Tarantino. E neanche fa denunce storico-civili come nell’ultimo film di Martone, che probabilmente meritava più attenzione di quella che ha avuto a Venezia.
Usa il cinema come le hanno insegnato e come ha imparato a fare con maestria, e ci racconta la sua vita ahimè quanto ricca aimè quanto noiosa.