Un'illuminante esecuzione del Combattimento di Tancredi e Clorinda ed i madrigali in stile rappresentativo al Festival Monteverdi
In questi giorni, il viso del divin Claudio tappezza i marciapiedi delle vie del centro di Cremona, indicando – al passante così come al fervente accolito - la rete ramificata di sentieri del Festival, ennesimo frutto di una provincia che, dell’Italia di oggi, è baricentro e cuore pulsante. Edizione 2024, la più ricca di sempre, non solo per la presenza di nomi stellari – John Elliot Gardiner e, soprattutto, Cecilia Bartoli, che domenica 23 giugno sarà l’attesissima protagonista della serata conclusiva – ma, ancor prima, per la preziosità non comune della sua trama, per l’intelligenza dei suoi intrecci.
E così, la voce monteverdiana parla al passato, al presente, ma soprattutto al futuro, e ci prende per mano alla scoperta di angoli segreti, nella geografia della partitura così come della città. Ogni appuntamento è qui la tessera non ripetibile di una sfaccettatura, di un approccio, di un aspetto, e ogni evento racconta ed esalta, in una polifonia battente, angoli e gemme di una città in cui tutto è nato e tutto rinasce, dove la storia è materia viva, patrimonio da assaporare con i cinque sensi. In questi anni, il Festival Monteverdi ha saputo scollinare, con gusto e consapevolezza mai ostentati, il versante della ritualità a favore di proposte coraggiose, sguardi audaci, prospettive inedite sul Dante della musica italiana. D’altronde, più la si frequenta, più la scrittura monteverdiana rivela un grado di complessità, articolazione, spregiudicata innovazione estetica e stilistica che, anziché sfiorire, sembra accrescere nel tempo vigore e statura ognor maggiori.
Teatro dei Filodrammatici è una bomboniera nascosta in una viuzza laterale del centro storico, all’ombra del Torrazzo. Edificato un secolo e mezzo prima del Ponchielli per volere di Giulia Ariberti Rangoni, moglie del marchese Giovan Battista Ariberti, esso è “teatro di casa”, ad uso praticamente privato; poi, per buona parte del XVIII secolo rimane inutilizzato fino a quando, nel 1801, il Governo della Repubblica Cisalpina lo concederà ad un gruppo di cittadini cremonesi per organizzare una stagione teatrale. Oggi il Filo è un cinema, ma in questi giorni è stato soprattutto il luogo in cui è andata in scena una Prima miracolosa, capace di offuscare, per certi aspetti, persino il magnifico Orfeo allestito in contemporanea al Ponchielli. Una lezione di teatro che ricorderemo negli anni, acuta, quasi dolorosa nella lancinante densità e stratificazione della sua drammaturgia.
A celebrare i 400 anni dalla prima rappresentazione de Il Combattimento di Tancredi e Clorinda – presentato al pubblico veneziano nel Carnevale del 1624 - , Polittico Monteverdiano portava in scena – una scena nuda che l’acuta regia di Roberto Catalano voleva senza fondale, un corpo tutto nervi , cavi e corde appese, esili neon pendenti come lacerti dolorosi, la porta nera di accesso ai camerini lasciata in bella vista, come soglia tra un mondo e l’altro – in un’unica serata, e per la prima volta in epoca moderna, i Madrigali in stile rappresentativo tra cui, appunto, il celebre Combattimento. Un affresco magico, un viaggio senza sconti nell’abisso dell’esistenza, nei suoi grovigli, nella disperata lotta tra scelta e predestinazione, sorte e speranza, amore e morte.
A scena aperta, mente il pubblico prendeva posto, gli attori cantanti – nei costumi goticheggianti e vagamente queer disegnati con intelligenza da Ilaria Ariemme – già si aggiravano, lenti, indagatori, su un palco che li avrebbe visti di lì a poco prendere fuoco. Come ad assottigliare ulteriormente, enigmaticamente, il già labile confine tra realtà e finzione, come a voler già proiettare le ombre, ma anche i barbagli, della parola monteverdiana, del suo teatro esponenziale, radicato in ogni timbro, in ogni armonia. Una sorta di campionario di umanità ferita, stretta ad un dolore muto che ne accomuna le solitudini in una condizione umana singolare e universale, scandita dal battito fiammeggiante della danza di Marco Caudera, vero sismografo della tela drammaturgica, sguardo esterno e sempre teso, presenza pervasiva eppure occulta, straniante e giudicante, capace di incarnarne pulsioni e passioni e di tradurle in gesti con asciutta, impassibile autorevolezza.
Era lui il filo di questa costellazione di destini che, in buca, la magistrale conduzione di Antonio Greco, cembalo e guida carismatica di quella straordinaria compagine che è l’ensemble Cremona Antiqua, accendeva di superbo pathos, disegnandone le infinite sottigliezze, le distese narrative, le lame fatali, le accorate suppliche. Canto e discanto nel cuore della materia monteverdiana, nell’intarsio di tessere così perfettamente compiute e così omogenee da sembrar nate sotto lo stesso cielo. Invece no. Madrigali tratti dal Sesto Libro e Settimo Libro, Madrigali guerrieri et amorosi, Scherzi musicali, contrappuntati a tre Sonate di Antonio Bertali, intrise in umori dichiaratamente monteverdiani. E il vertiginoso Combattimento come approdo, sintesi e naturale epilogo. Lei, Clorinda, aveva la voce, il temperamento, l’innocente ardore di una strepitosa Silvia Frigato, portata in braccio dall’arcano danzatore e deposta, come un neonato, al centro della scena. Da lì, la sua biografia indagata in presa diretta ne avrebbe plasmato i contorni: il fiocco rosso sui capelli presto reciso, come un cordone ombelicale, e lavato in un pagano rito di iniziazione nell’acqua fattasi rosseggiante anch’essa a cui, a turno, tutti avrebbero intinto le mani. La sua morte, madrigale dopo madrigale, avrebbe infine raccolto attorno a sé, dopo una giostra di conflitti e contrasti, le altre presenze: Giorgia Sorichetti, Cristina Greco, Angelo Testori, Nicola di Filippo, Giacomo Pieracci, l’intenso Ferran Albrich. Voci e volti di accesa espressività, perfetti a conferire, alla scena finale, la tinta sanguigna di un’autentica sacra rappresentazione, eternamente nostra, eternamente attuale, in un tempo sospeso che profumava di classicità, di affetti universali, di noi. Una manciata di musicisti e interpreti, una scena dai mezzi ridotti all’osso. E l’incanto è servito.