
Una cronaca della decima edizione del festival organizzato dall'Orchestra da Camera di Mantova
Ci sono i racconti presi a caldo, catturati nel groviglio ancora vivo di quelle ore. Tra un ascolto e l’altro, o addirittura mentre si ascolta, tecnica ideale per fissare, in uno stato di quasi-trance, la tinta e la voce della musica nel suo compiersi. E poi, con il trascorrere dei giorni, la marea restituisce, a ondate, i racconti più decantati. Quelli di chi non ha fatto in tempo a consegnare in presa diretta le proprie istantanee, o di chi, più spesso, su quelle istantanee ha voluto meditare per individuarne un senso più profondo. Una trama segreta. Di certo c’è questo: Trame Sonore, giunto al suo decimo compleanno, nato quasi per scherzo, è ormai la prima stella nel cartellone musicale mantovano (ben oltre e ben di più del tradizionale Tempo d’Orchestra) e, al tempo, un appuntamento irrinunciabile per un pubblico catturato oltre i confini virgiliani, in Italia, in Europa, spandendo il suo riverbero su un uditorio in cui siedono, con lo stesso febbrile entusiasmo, neofiti e addetti ai lavori.
Un Festival immersivo la cui parola più ricorrente per descriverlo è “vertigine”. Per la qualità di (quasi) tutti gli assaggi che compongono l’arazzo di questa quattro giorni senza fiato in cui il tempo sembra sospendersi in un eterno presente. Per l’incastro tremendamente difficile da realizzare (a cosa rinunciare? quale filo seguire?), per la bellezza straripante che colloca l’esperienza d’ascolto tra soffitti a cassettone, specchi dorati, pietre millenarie ed echi di un Rinascimento qui mai spento. Per l’informalità di un ritrovarsi tra amici, senza riti né finzioni, con gli interpreti mimetizzati tra il pubblico, quasi a cancellare anche l’ultima parete tra palco e platea. La musica, insomma, nel suo naturale atto di accadere. E di accadere per noi. Viene, a tratti, quasi il sospetto che il piacere del parlare di musica sia, qui, matrice e ragione fondante di questa invitante scacchiera fatta di mosse, scelte, tempi serrati, continue biforcazioni tra il cosa colgo e il cosa perdo. Bellezza a non finire, da gustare attingendo dallo sfizioso banchetto delle sue multiformi declinazioni. Parole che non solo rendono più sapida la condivisione, prima o dopo la musica (qui quasi mai durante: l’ascolto è pregnante, denso, non robetta come ahinoi sempre più spesso accade anche tra le poltrone dei gran teatri), ma che restituiscono, sfaccettato, cangiante, il colpo d’occhio dell’intero progetto.
Un progetto in cui il tutto è solo sulla carta. Materialmente inaccessibile. Come una sfinge schumanniana: ovunque ed in nessun posto. Le sue parti, quelle affollate di eventi o quelle sobriamente selettive, monocromatiche – persi dietro un unico artista – o multicolor - questo e quello, il grande nome, sì, ma anche il giovane, il nuovo, il mai ascoltato, l’azzardato, il trendy - sono il solo approdo alle rive del Festival. E mentre si ascolta musica, tra le sale dei palazzi o nell’ombra afosa delle chiese, si riflette sulla brevità degli istanti, e sulla forzata necessità di scegliere il proprio sentiero da percorrere, già consapevoli che in questo banchetto, come nella vita, soprattutto nella vita, è la rinuncia l’ombra di ogni nostro passo compiuto. I più fortunati? I pensionati, quelli, ovviamente ancora nel pieno delle forze (sì, perché questa folle journée dilatata è roba per maratoneti, per gente col fiato lungo!) e con l’immenso forziere di un tempo ormai decompresso da scadenze e adempimenti da plasmare a proprio gusto. E i turisti: due, tre giorni nella città ducale, attori non protagonisti di una pellicola a cielo aperto da vivere e da applaudire, dall’alba alla notte. Noi, dal canto nostro, programma alla mano, abbiamo dovuto scendere a compromessi con condizioni meno privilegiate in cui autentiche chicche, idealmente imperdibili, hanno finito per essere dolorosamente depennate prima ancora che considerate.
Ma a Mantova tutto gira troppo veloce per rimpiangere, e ogni istante presente invita ad essere delibato per quel che è, prima ancora che per ciò che avrebbe potuto essere. Così, valutate le proposte a noi concesse, considerati i molti ritorni, le conferme di artisti ad ogni edizione puntualmente sul palco, come ad una rimpatriata tra amici in cui non occorre presentarsi con niente di speciale se non se stessi, qualche voce non ancora ascoltata, qualche sorpresa, molte gemme che da sole varrebbero l’edizione, abbiamo composto il nostro bouquet. Al centro, abbiamo collocato petali rari. A partire da Concetto spaziale offerto da Maurizio Baglini e firmato da Nicola Sani, presente in sala; un’investigazione acuta e dolorosa sul materiale sonoro sollecitato a creare squarci, brecce, insinuazioni tra la dimensione interiore ed esteriore del suono e dell’esistenza, che qui trovava un avvincente contrappunto nell’estrema voce schumanniana, quella dei Gesänge der frühe, quei Canti del mattino che il pianista pisano rievocava insieme al loro commovente, eterno enigma. Qualche minuto dopo, una manciata di passi in centro ed ecco il violino viscerale, pensante, straordinariamente autorevole, di Nurit Stark, già protagonista di indimenticabili occasioni di musica nelle passate edizioni e stavolta, nell’afa strapadana della Rotonda di S. Lorenzo, sarta di un viaggio cucito per frammenti addosso all’anima popolare, selvatica, antica, del mondo slavo e mitteleuropeo. I profili affini e speculari di Kurtag ed Enescu, i loro “romanzi in un respiro” a disegnare una rotta “minore” costellata di echi zigani e melodie klezmer, condotta dalla violinista israeliana a piedi nudi in una narrazione viscerale e dionisiaca dall’anima danzante. Dall’alto, nelle geometrie dell’antica chiesa matildica, lo spirito di Bach sorvegliava ed ispirava.
Il giorno prima, impossibile resistere all’invito, nelle stanze di quel miracolo di illuminata artigianalità che è la casa editrice Corraini, di accostarsi allo spirito libero ed irrequieto Reynaldo Hahn, talento pericolosamente multiforme e figura cruciale nella Francia fin de siècle, nel cammeo prezioso confezionato, tra musica e racconto, dalla voce di Blagoj Nacoski e dal pianoforte di Luca Ciammarughi. E, andando a ruota libera, altrettanto impossibile non vincere la stanchezza per quell’incontro al vertice, tra semidei, organizzato ormai in notturna tra gli archi imperiosi di Barnabas Kelemen, Lawrence Power, Katalin Kokas e Nicolas Altsaedt, con il clarinetto di Reto Bieri a completare il simposio sul sentiero di un impaginato spartito tra Veress e Kodaly. Ma, ancora una volta, a dare la temperie, la levatura, la cifra di questa fioritura di una Mantova che per una manciata di giorni non teme confronti era un monumentale Alexander Lonquich. Un uomo che da solo fa ed è, incarnandolo in un’adesione totale, il Festival. Capace di custodire sotto le dita, in testa – in una comprensione a grandangolo che è instancabile pungolo, quotidiano servizio, rigorosa riflessione – tonnellate di musica, una pagina dopo l’altra, un autore accanto all’altro, dando ad ognuno non solo la piega di un profilo nitidamente identitario, ma soprattutto il dono di una reincarnazione che ne catapulta, imperiosa, la voce nell’oggi e, forse ancor più, nel domani. Lo strumento non suonato ma interrogato, sollecitato per bussare alle verità di opere da ascoltare e riascoltare, da scoprire e sfatare. È lui la trama più bella e spregiudicata, libera e sinceramente anticonformista, quella che sintetizza, abbraccia, avvolge i mille rivoli di questo dedalo che è il Mantova Chamber Music Festival; l’unica che davvero già si conosce in partenza e che, puntualmente, ogni volta spiazza le nostre attese, cambiando finale e morale.
Cambiando destino ad ascolti triti e ritriti. Se nel dialogo con il violoncello di Nicolas Altstaedt sui sentieri giovanili di Nadia Boulanger e di Samuel Barber la complicità di un’intesa millimetrica dava vita alla sempre toccante meraviglia di un dialogo avvincente – lo stesso che, la sera dopo, avremmo ritrovato nell’intreccio con i magnifici Jonian Ilias Kadesha e Vashti Hunter sul tracciato del brahmsiano Trio op. 87, torrenziali micce di un’esecuzione all’ultimo sangue – non meno intenso, ripiegato nelle corde di un parlarsi quieto e straordinariamente colloquiale, era l’ordito che Lonquich tesseva con il clarinetto del figlio Tommaso. Sul leggio, insieme al Saint Saens della Sonata op. 167, la tarda estate brahmsiana della Sonata op. 120, il suo congedo dipanato in un racconto piano e sliricato. Nel dialogo padre – figlio si potevano cogliere il parlarsi attraverso le strade della musica, l’incontro dentro alla voce dell’autore, a stanare il senso delle cose compiute e di quelle mancate, il bilancio di una giornata che ormai volge alla sera.
Doveva essere una sostituzione in corsa, è stata una delle gemme più alte di questa edizione. Insieme alla riesumazione della voce, raramente proposta, alle nostre latitudini, di Constantin Regamey, singolare personalità divisa tra lo studio e l’insegnamento delle culture orientali e la musica. Il suo Quintetto per fiati, archi e pianoforte è opera monumentale, autentico ponte tra due mondi e due epoche. Ad aprirlo, un recitativo esitante, strappato al silenzio di una natura in ascolto, ben presto travolto dal pulsare così stringente da confondere, in un’ambiguità mai chiarita, lotta e gioco, scaramuccia e ferita. L’orizzonte tonale appare allo stesso modo svaporante, sospeso; la scrittura è nervosa, aspra, strumentalmente impervia, squarciata dalle oasi di canti struggenti, annidati tra il chiasso del mondo e la polvere dei giorni. Qui il pianoforte di Lonquich trovava, affilato, il violino di Ilya Gringolts accanto al violoncello di Altstaedt, contrappuntati dal fagotto di Diego Chenna e dal clarinetto di Reto Bieri. Lasciamo per ultima quella rosa che nel bouquet spicca sulle altre e, da sola, vale le altre: lo Schumann delibato in una sala di Manto gremita. Bello da sconvolgere, inquietante come lo è ogni verità che ci imponga di riposizionare le nostre malcerte sicurezze. Il passo fuggevole, alato, di chi va di fretta verso la pienezza della vita, impresso all’Arabesque. E l’Arabesque, tratteggiato con pennino mercuriale, capriccioso e irregolare nel suo svelarsi e celarsi, era la porta sulla notte, sull’abisso visionario e terrificante, irresistibile come lo è ogni gorgo, della Sonata op. 11. Monumento e labirinto, con i suoi infiniti ritorni, le sue stanze ingannatrici tra vie d’uscita e vicoli ciechi, quel perdersi e ritrovarsi caro all’amato Schubert, rapsodico e disperato al tempo stesso. Lonquich sembrava dar voce a quella affollata moltitudine che in queste pagine abita e dialoga continuamente, tra echi, citazioni, frammenti cifrati. L’io, il non io, il noi, risucchiati da un’urgenza divorante, sinfonica, immensa. Lì abita tutto un mondo, tutto un uomo. Non avevamo mai avuto la sensazione della voce di Schumann così vicina, quasi trepidante nelle inflessioni, tra sussulti e singhiozzi, prima di imboccare la cavalcata finale, implacabile, dell’ultimo movimento, scolpita nel suo abbacinante edificio polifonico. Una vertigine.