Recensioni - Cultura e musica

Trame sonore 2020 un festival che guarda al futuro

Un'edizione del Mantova Chamber Music Festival destinata a rimanere nella storia. 

“Questa è la musica del futuro”. Così, in una clip promozionale di qualche annata fa, il musicologo Giovanni Bietti invitava ad immergersi nel denso gorgo di appuntamenti del Mantova Chamber Music Festival per assaporare le radici del camerismo come felice laboratorio di interazione attraverso cui immaginare nuove prospettive civili, prima ancora che artistiche. Sul domani, nelle sue mille incognite oggi ancor più nebulose, non abbiamo che vaghe ipotesi spesso inquinate da comprensibili speranze. Ma certamente, il fare musica insieme, nella multiforme declinazione di tante piccole formazioni che consentano – di qua e di là dal palco - un’immediata complicità di sguardi e di intenti, è il balsamo più efficace, la cura più confortante giunta a lenire il plumbeo silenzio del nostro presente e di questi tempi bui.

Prima ancora di entrare nella sostanza musicale, va sottolineato che “Trame Sonore a Palazzo” edizione 2020 è stato un miracolo; un inno alla vita che ricomincia, ad un’umanità che nell’incanto di uno scrigno rinascimentale ritrova i suoi riferimenti essenziali. Numeri ridotti, ingressi contingentati, distanzialità imposta non hanno impedito a Carlo Fabiano ed alla macchina organizzativa di Oficina Ocm di attirare nella città gonzaghesca, tra venerdì 5 e domenica 7 settembre scorsi, qualcosa che si avvicina al miglior mondo tra i possibili. Trame sempre incredibilmente fitte (ahinoi, scegliere tante volte è il dilemma, dove ascoltare implica il rinunciare ad altro), contraddistinte dalla cifra di una superba qualità dei contributi. Ascolti di trenta, quaranta minuti al massimo, dislocati nei punti salienti della città; la purezza illuminista del Teatro Bibiena oltre a sale e cortili dei palazzi ducali, piazze e loggiati quattrocenteschi, la romanica Rotonda di S. Lorenzo. Un mosaico da comporre a piacimento, con i singoli tasselli da recuperare pedalando o correndo da un angolo all’altro della città, tanto da rendere l’ascolto un viaggio nel viaggio; gemme singole, alcune così prepotentemente accecanti da renderne difficile, forse impossibile, la restituzione in un giro di parole.

Principe postmoderno di una città che in lui ha trovato la stella polare di quella che è a buon titolo la singolarità della sua proposta musicale, Alexander Lonquich è stato ancora una volta mattatore assoluto, protagonista solo nella giornata di sabato di ben quattro appuntamenti diversi, coronati dal dittico serale prima a fianco del violoncello strepitoso di Hunter Vashti e, poi, gigante senza eguali in solitaria, nella beethoveniana Hammerklavier op. 106 dove l’esaltazione delle sue iperboliche geometrie trovava, nella pulviscolare esplorazione di ogni anfratto, una densità introspettiva che disarmava per rigorosa libertà, infallibile lucidità e profondità di sguardo. “Senza parole”, commentava con l’esattezza che gli è propria Luca Ciammarughi, a sua volta protagonista qualche ora prima di un avvincente doppio appuntamento, tra parole e musica, dedicato a Schubert proprio nel confronto con la figura beethoveniana. Una folle journée che aveva avuto il suo prologo nell’apparizione – in replica alla sera precedente – del Quartetto Prometeo sul palco del Bibiena, alle prese con il monolite sfaccettato e sfuggente di un altro Beethoven “estremo”: quello del Quartetto op. 131 in do diesis minore.

La Fuga, qua come là, posta a marmoreo paradigma di un’indagine che, dalla sublime razionalità del magistero bachiano, in un incessante processo metamorfico, presto svapora in mondi poetici in cui è la voce interiore a farsi largo tra le maglie del più ardito contrappunto, in un incedere procedente per contrasti e strappi, per discorsi spezzati e spiazzati da brucianti silenzi. Se la fuga chiude trionfalmente, con l’abbacinante utilizzo di tutte le possibilità combinatorie, la monumentale Sonata, ne apre invece il Quartetto dove, come in una laica processione, gli archi entrano uno dopo l’altro, mormorando una preghiera che andrà a stratificarne le voci. Una verginale essenzialità che, tempo qualche battuta, accumula tensione caricandosi di un senso espressivo quasi insostenibile, tanto da costringere la narrazione a mutare continuamente passo e misura. È l’architettura di questa condensazione emotiva che, nell’Hammerklavier come – in maniera ancor più radicale e deliberata - nell’op. 131, finirà per sfaldarsi e spazzare via ogni steccato, curvando struttura e contenuti sotto il peso di un’urgenza espressiva mai così tracimante. Nell’anno del giubileo beethoveniano, fatichiamo ad immaginare un duplice omaggio più intenso, più devotamente sincero. Pochi sono gli interpreti capaci di questo sguardo dall’alto, capace di penetrare la pagina e di tradurne il depositato con altrettanto cristallino nitore. Quattro e uno al tempo stesso, i Prometei confermavano la loro cifra di formazione d’eccellenza, dichiaratamente tesa ad una ricerca svolta a partire dalle implicazioni, dai risvolti del testo, dalla drammaturgia che ne governa le leggi interne.

Da sempre inarrivabili nella sottile arte di conciliare detto e non detto, attese e rese, in un equilibrio pungolato dallo sferzare di un pathos accorato e a tratti disperato, gli elementi eternamente divergenti del mirabile e del passionato (impallidiva, a loro cospetto, il pur bravissimo Hermès, interprete di uno Schubert smaltato ma privo di antagonismo, taciuto nell’angoscia incombente delle sue ombre), i quattro – con duttilissima sapienza dei piani dinamici – si facevano largo in una scrittura disseminata di crepe, di balze, assecondando il terreno ora petroso ora soave, sempre enigmatico del Quartetto. Nella trasparenza assoluta di questa lettura, gli intrecci di una polifonia dal vertiginoso slancio verticale svelavano, sotto il basalto della superficie, la lava quiescente di un humor non domato. In Lonquich, esattamente come nei quattro cameristi, l’implacabile investigazione della frase custodiva i segreti tiranti di dialogo interno disegnato con il pennino di una strumentalità sconfinata, capace di decostruire e ricostruire con fatata naturalezza la più minuta filigrana del tessuto drammaturgico. Tutto era vivo, parlante, autentico. La ragnatela ordita nota dopo nota, come un sublime narcotico, non lasciava scampo: così attori e spettatori finivano per trovarsi avvinti senza possibilità di lotta, di distrazione, al cospetto di Beethoven e della sua multiforme, eterna profezia. Della sua visione che non smette di sorprendere e disorientare, duplicemente rivolta a riannodare i fili del passato e a proiettare lo sguardo verso l’orizzonte, ancora imbevuto di nebbia, di un tempo che ancora non è. Quell’orizzonte a cui, di lì a poco, altri viandanti dopo di lui si affacceranno, facendo a loro volta tesoro del suo ingombrante testamento.