Schὂnberg e Mahler per la prima tournée del Maestro milanese nel ruolo di direttore musicale dell'orchestra più antica d'Europa
Il braccio destro come una vela, il sinistro come uno stetoscopio: così Daniele Gatti solca i mari aperti di partiture abissali e ne ausculta le acque, intrecciando i piani del reale e dell’onirico, del crudo e del soave. Lo scorso 13 settembre, a Verona, nell’appuntamento di punta del Settembre dell’Accademia, il Direttore milanese ha festeggiato, sul palco del Teatro Filarmonico, l’avvio della sua collaborazione con la Staatskapelle Dresden, gloriosa compagine fondata nel 1548 che, guidata dalla bacchetta italiana più autorevole nel mondo, trasuda storia, tradizione, bellezza.
L’impasto anticato degli archi, il bronzo regale degli ottoni. E attorno, il sottobosco vivissimo, mercuriale, dei legni, e quello inesorabile delle percussioni. Un’orchestra - mondo che, dapprima nell’incanto ogni volta sorprendente di Verklἅrte Nacht di Schὂnberg, poi nella Prima Sinfonia di Mahler, nel risveglio di una Natura prepotente, imperiosa, trafitta dal progressivo affiorare di voci subito svettanti, trovava piena esaltazione delle sue magnifiche singolarità. Un miracolo di dettagli, di angoli segreti scandagliati in una lettura al laser, impietosamente rigorosa eppure grondante umanità. Un “Bravo” piovuto dal loggione rompeva la forte tensione accumulatasi nel Primo Movimento della Sinfonia e conduceva prima al Lἅndler, asciugato dei toni grossolani da taverna, poi allo stralunato, inesorabile corteo funebre del Movimento centrale, in cui anche l’eco livida del celebre Bruder Martin suonava sfibrata, irreale.
Alla stupefazione, Gatti contrapponeva uno sguardo costante, lucido, disilluso, attraverso il mistero del mondo. Uno sguardo che, raffreddata la colata lavica del micidiale attacco del Finale – bastavano quelle poche battute, a dire cosa sia questa orchestra – ritrovava la più estenuata nostalgia, con il fino riapparire (il ricominciare, in una visione ciclica del tempo) delle quarte discendenti del Primo Movimento, con la loro ombra aleggiante, a dire che non c’è scampo, e che l’apoteosi del radioso finale è, in realtà, sublime, ruffiano miraggio. Un unico bis: l’intermezzo da Manon Lescaut, esasperato nella sua tavolozza di sensualità e disperazione, a celebrare, nel giorno della nascita, 150 anni fa, di Arnold Schönberg, anche il centenario della morte di Puccini.