Recensioni - Cultura e musica

Un Attila minimalista conclude la stagione lirica al Filarmonico

La partitura giovanile di Giuseppe Verdi proposta in un allestimento essenziale ed eccessivamente austero

Pur appartenendo al cosiddetto periodo definito degli “Anni di galera” e non rientrando nel novero dei capolavori giovanili, quali ad esempio Nabucco, Ernani o Macbeth, Attila è un titolo che ha goduto di una discreta fortuna all’interno del repertorio verdiano, al punto che anche direttori di grande fama (Giuseppe Patané e Riccardo Muti in cima alla lista) l’hanno affrontato in disco e in teatro.


A distanza di 25 anni  da un celebrato allestimento all’interno dell’anfiteatro scaligero, la Fondazione Arena ha deciso di riproporre questo titolo giovanile del musicista bussetano all’interno della stagione invernale 2008 al Teatro Filarmonico. Scelta questa che, al pari della messinscena di Oberto del mese scorso, ha permesso di riscoprire un Verdi per certi versi ancora sperimentatore, ma il cui stile già anticipava ciò che si sarebbe poi concretizzato nei capolavori della maturità.

I personaggi di Attila non sono certo scolpiti e psicologicamente definiti come un Rigoletto, un Filippo II o un Falstaff, tuttavia già in questa musica emergono quello spirito eroico e quella capacità di sintesi che consentivano a Verdi di delineare drammaturgicamente una situazione al punto di coinvolgere emotivamente il pubblico e di trascinarlo di peso all’interno della vicenda.

Da questo punto di vista, di grande efficacia si è rivelata la direzione d’orchestra di Julian Kovatchev, forse l’aspetto migliore di questo allestimento. Il maestro bulgaro ha staccato tempi abbastanza sostenuti scegliendo di  far emergere prevalentemente l’aspetto eroico della partitura, pur senza mai scivolare eccessivamente nella retorica e nell’enfasi. Da qui una lettura di grande trasporto, sostenuta con coerenza  e bene assecondata dall’orchestra dell’Arena.

Non altrettanto omogenea invece si è rivelata la prova degli interpreti: Orlin Anastassov è stato un Attila imponente, sia nel fisico che nel peso vocale, ben timbrato ma un po’ monocorde nell’emissione. Discorso analogo per l’Odabella di Maria Guleghina, a suo agio nel registro centrale, che conserva ancora una notevole potenza, ma spesso in difficoltà negli acuti e nelle mezzevoci. Più interessante l’Ezio di Luca Salsi,  corretto nella linea di canto ed estremamente comunicativo, mentre molto chiara e priva del necessario eroismo è parsa la voce di Fabio Sartori nel ruolo di Foresto.

Perplessità sono giunte anche dalla parte visiva dello spettacolo. La scenografia di Jean Pierre Vergier si limitava ad un palcoscenico vuoto, non fosse stata per la presenza di alcune dune che rappresentavano una sorta di landa desolata nella quale si svolgeva tutta l’azione. Eccezion fatta per il terzo atto, dove è apparso anche il tronco di un albero, per tutto il resto dello spettacolo gli unici cambi di scena erano realizzati mediante un suggestivo uso delle luci ed un gioco di proiezioni che, con alterna efficacia, si succedevano sul fondale.

Ad una tale staticità visiva non ha purtroppo compensato la regia di Georges Lavaudant, il quale altro non ha fatto che gestire entrate ed uscite dei cantanti e bloccare il coro sul fondo più a mo’di oratorio che non di opera lirica. Non del tutto chiara inoltre la scelta dei costumi, che mescolavano antico e contemporaneo in una sorta di “pastiche” senza tempo.

Un allestimento essenziale, quindi, che forse poco si sposava allo stile impetuoso ed irruento della musica, che è stato comunque apprezzato ed accolto con favore dal numeroso pubblico che affollava il teatro.

 

Davide Cornacchione 30/03/2008