Musicalmente eccellente ma visivamente poco interessante il titolo inaugurale della stagione areniana
Assente da alcune stagioni dal cartellone dell’Arena di Verona, Un ballo in maschera è tornato in un nuovo allestimento che ha brevemente interrotto la sequenza di Aide, Carmen, Nabucchi, Tosche, che da anni si ripete ciclicamente su questo palcoscenico.
Trattandosi dell’opera inaugurale, la direzione artistica ha scelto di puntare su una compagnia di prim’ordine, che all’ascolto ha pienamente soddisfatto tutte le aspettative.
Riccardo era Francesco Meli, che, oltre a confermarsi come uno dei migliori tenori lirici attualmente in circolazione, ha ribadito come quello del governatore di Boston sia uno dei ruoli a lui più congeniali. Il timbro è sempre bellissimo, gli acuti svettano sicuri ed il fraseggio è sempre attento alla migliore resa espressiva del canto.
Discorso analogo per il Renato di Luca Salsi, che seppure con qualche ruvidezza in più nell’emissione, dovuta probabilmente alla necessità di irrobustire la voce per adattarla ad uno spazio quale quello areniano, ha sfoggiato un timbro da vero baritono verdiano, ricco di armonici ed estremamente duttile alle esigenze interpretative.
Serena Gamberoni è stata un eccellente Oscar, perfetto nel registro acuto, spigliato in scena e soprattutto ripulito da tutta quella fastidiosa petulanza che molte interpretazioni hanno cucito addosso a questo personaggio.
In linea con il resto del cast Virginia Tola è stata un’Amelia partecipe ed appassionata, non sempre immacolata negli acuti che suonavano a volte un po’ aperti.
Maggiori difficoltà invece è sembrata averle l’Ulrica di Elisabetta Fiorillo, costretta spesso a forzare per mantenere una linea di canto adeguata.
Adeguati ma senza particolari eccellenze i comprimari: William Corrò (Silvano), Seung Pil Choi e Deyan Vatchkov (Samuel e Tom), Antonio Feltracco (giudice) e Saverio Fiore (servo).
Sul podio Andrea Battistoni è sembrato più ispirato rispetto ad altre occasioni. Abbandonate per una volta le sue dinamiche da Verdi risorgimentale ha optato in questo caso per tempi più distesi ed una maggiore ricerca di colori, ottenendo in più occasioni risultati apprezzabili.
Peccato quindi che ad una tale riuscita musicale abbia corrisposto una parte visiva che ha suscitato più perplessità che motivi di convinzione.
Il curriculum di Pierluigi Pizzi (artefice di regia, scene e costumi) può vantare molti spettacoli particolarmente riusciti (il suo Macbeth ad esempio è una delle migliori produzioni areniane dell’ultimo ventennio). Purtroppo però l’artista da alcuni anni ha deciso di abdicare dal suo ruolo di regista per affidare la resa dello spettacolo al solo scenografo-costumista, limitandosi a progettare delle eleganti cornici all’interno delle quali cantanti sfarzosamente abbigliati agiscono in modo assolutamente convenzionale.
Parlare quindi di regia in questo allestimento risulta abbastanza difficile, dato che i protagonisti al di là del classico entrare e uscire di scena (a parte Riccardo costretto a continui attraversamenti del palco) sembravano aver poco da fare, ed il coro, quasi sempre statico, lasciava che l’unica fonte di movimento fossero le didascaliche coreografie di Renato Zanella che poco o nulla aggiungevano all’azione.
La scenografia, ispirata al neoclassicismo inglese trasferito in terra americana si basava su un ampio colonnato semicircolare convesso che in alcune occasioni ruotava su sé stesso anticipando i cambi scena e svendendo completamente il coup de théâtre della scena del ballo, cui non è bastato qualche fuoco d’artificio per conferirle spettacolarità (i paragoni sono sempre antipatici, ma ben altro effetto otteneva Zuffi nell’edizione 1986).
Anche l’“orrido campo” ben poco aveva di orrido: delimitato sullo sfondo dal solito elegante colonnato e caratterizzato da tre cipressi posizionati nel mezzo ricordava molto di più il rassicurante “giardino degli intrighi” del quarto atto delle Nozze di Figaro che non il luogo deputato alle impiccagioni.
Il resto dell’azione si è svolto senza particolari sorprese in due interni ricostruiti ai lati del proscenio ed anche le scene di massa, compreso lo sventolio di bandiere a mo’ di Margherita Wallmann che chiudeva il primo atto, non sono mai risultate particolarmente incisive.
Il pubblico, che riempiva solo per un terzo l’anfiteatro, ha comunque applaudito sempre calorosamente e con convinzione.
Davide Cornacchione 27 giugno 2014