Recensioni - Cultura e musica

Un coraggioso Don Carlo al Grande

Nell’anno del centenario della morte nessun teatro d’opera ha potuto esimersi dal dedicare uno o più appuntamenti importanti al ma...

Nell’anno del centenario della morte nessun teatro d’opera ha potuto esimersi dal dedicare uno o più appuntamenti importanti al maestro di Busseto e così, rovistando all’interno dei vari cartelloni si è potuto assistere alla messinscena della quasi totalità del “corpus” verdiano.
Vero è che Rigoletto, Traviata o Ballo in maschera sono opere che si possono incontrare frequentemente nella programmazione di un qualsiasi ente, mentre quando la scelta cade su altri titoli decisamente più desueti l’attenzione di chi segue questi eventi non può che acuirsi. Se poi si tratta dell’opera più complessa, più sofferta e controversa dell’intero iter compositivo, al punto che molti critici la considerano il punto più alto, allora l’occasione è da non perdere.
Ben venga quindi questa scelta decisamente coraggiosa, affrontata dal Teatro Grande, di partecipare ad una coproduzione finalizzata alla messinscena di quello straordinario lavoro che è il “Don Carlo”, seppur nella penalizzante ed un po’anacronistica versione in 4 atti, ma tant’è, l’edizione integrale è ancora pressoché misconosciuta, soprattutto in Italia.
E’ comunque rimarchevole che un Teatro di Tradizione decida di cimentarsi in un’operazione che, per impegno e difficoltà, farebbe tremare i polsi anche ad un Ente Lirico (o Fondazioni, come si chiamano ora): basti ricordare la sbilenca edizione di Don Carlo firmata dalla trinità Muti-Zeffirelli-Pavarotti che inaugurò la stagione scaligera alcuni anni fa.
Don Carlo è infatti un’opera che richiede 6 interpreti di grande levatura, tante infatti sono le parti protagoniste, un ottimo direttore in grado di concertare una partitura traboccante di momenti musicali straordinari ma avara di concessioni al pubblico (mancano brani celebri o comunque motivi di facile abbandono), ed un regista in grado di tenere le fila di una trama tanto complessa quanto ricca di spunti quale solo un dramma di Schiller può essere.

La linea interpretativa su cui ha optato il regista e scenografo Pier Paolo Pacini in questo allestimento ha fatto perno sul rapporto chiesa-potere, che raggiunge la sua vetta nel dialogo tra Filippo II e il Grande Inquisitore. Francamente il tutto è stato risolto in maniera abbastanza superficiale e sbrigativa: eccezion fatta per una retroproiezione di una croce in un paio di scene e per la presenza di due gabbie metalliche che simboleggiavano il clima opprimente della Spagna dell’epoca, la regia non ha offerto nient’altro. Il tutto si è svolto all’interno di una scena fissa costituita da due ordini digradanti di arcate, che francamente rimandavano più alla facciata di S.Ambrogio a Milano piuttosto che all’Escurial, all’interno del quale interpreti e masse corali si muovevano, privi di qualsiasi espressività scenica, assumendo posizioni riconducibili a modelli teatrali a mio avviso superati ormai da decenni. Il tutto è stato accompagnato da una composizione delle scene estremamente didascalica e da un uso abbastanza povero delle luci, che, eccezion fatta per la scena dell’Auto da fè e per il terzo atto, non sono riuscite a creare atmosfere particolarmente significative.

Al contrario, dal punto di vista musicale i risultati, seppur con i debiti alti e bassi, sono stati decisamente più interessanti. Il merito maggiore di ciò va sicuramente alla direzione di Antonello Allemandi. Il maestro, pur contando su di un’orchestra di dimensioni ridotte, ha mostrato una notevole padronanza degli accenti verdiani ed ha realizzato una lettura estremamente corretta ed appropriata senza mai cadere nel generico. Al contrario, ha sempre saputo fornire un puntuale supporto alle voci pur mantenendo sempre viva la tensione del discorso musicale.

Per quanto concerne i cantanti invece il giudizio è più variegato.
Positiva l’impressione suscitata dal Filippo II di Petri Lindroos, che ha esibito una buona voce, estremamente salda nei centri ed in basso pur con qualche incertezza nel registro alto. Tra gli interpreti è quello che ha dimostrato di sapersi muovere più appropriatamente sulla scena.
Ottima anche la prova di Simona Bertini quale Elisabetta per correttezza di emissione e per ricchezza di sfumature e di accenti. I due duetti tra Elisabetta e Don Carlo del primo e del quinto atto sono stati, grazie anche al prezioso lavoro di cesello operato da Allemandi, tra i momenti più intensi dell’opera, nonostante l’inadeguatezza vocale di Malagnini. Il tenore bresciano infatti non possiede assolutamente il fraseggio necessario a rendere adeguatamente un personaggio quale Don Carlo: nonostante dimostri ancora una certa facilità nel raggiungere gli acuti, il suo timbro è totalmente privo di omogeneità e, sorvolando su un emissione invero bruttina, il suo infante di Spagna è stato tratteggiato in modo abbastanza generico e superficiale. Discorso analogo per la Eboli di Laura Brioli, nonostante nel suo caso la tecnica vocale fosse di livello superiore rispetto a Malagnini. Decisamente più interessante la prova di Juan Tomas Martìnez nei panni di Rodrigo, che, pur possedendo ancora una voce estremamente immatura e bisognosa di rifiniture, ha cantato con una grande partecipazione che gli ha permesso di ovviare ad alcuni limiti tecnici sicuramente superabili col tempo. Decisamente fuori ruolo invece Nikolai Bykov, che basso profondo non è, nel ruolo dell’inquisitore. Nella grande scena del terzo atto la sua voce risultava troppo chiara rispetto a quella di Filippo II per rispettare correttamente gli equilibri richiesti da Verdi.
Alla fine applausi cordiali per tutti, in particolare per soprano e baritono, da parte di un pubblico provato dalla relativa difficoltà e lunghezza dell’opera che è stata rappresentata, giustamente, con un solo intervallo tra il secondo ed il terzo atto.

Davide Cornacchione (25/10/2001)