Recensioni - Cultura e musica

Un eccentrico Pogorelich per un visionario Rachmaninov

Il pianista croato in un memorabile concerto con la Filarmonica Toscanini diretta da Keri-Lynn Wilson

L’eccentricità è da sempre l’alone che accompagna il destino di Ivo Pogorelich, sin dalla sua apparizione al Concorso Chopin del 1980. La sua clamorosa eliminazione aveva suscitato la furia di Martha Argerich, che a sua volta se n’era andata dalla giuria sbattendo la porta e procurando all’allora ventiduenne pianista serbo, di fatto, il più bel biglietto da visita verso la ribalta internazionale. Scelte particolari, le sue, già a quell’epoca. Fraseggi sghembi, stacchi di tempi vertiginosi o, al contrario, iperdilatati, assecondando il gusto per una provocazione audace, splendidamente arrogante eppure sempre sorretta dal faro di un talento cristallino fatto di mani divine e di pensiero granitico. Nel nostro archivio personale non possiamo dimenticare la folle tensione che abitava i Quattro Scherzi chopiniani, eseguiti al Teatro Grande di Brescia in occasione di un lontano Festival di Brescia e Bergamo. E altrettanto indelebile rimane quel bombastico Gaspard de la Nuit snocciolato come bis (come bis!) in chiusura di un recital tenuto al Teatro Bibiena di Mantova, dove Pogorelich si era presentato al pubblico con un improbabile paio di pantofole color blu elettrico. Poi, anni di silenzio, la crisi personale a seguito della morte della moglie ed insegnante Aliza Kezeradze, nel febbraio del 1996, l’avvicinamento al misticismo e alla meditazione; da allora, fugaci comparse, una presenza sempre più marginale nei cartelloni e quell’alone di alata eccentricità nel frattempo tramutatosi in una stella fredda, in un vulcano spento. Lo ricordiamo qualche anno fa, in un Regio di Parma disorientato di fronte ad approcci così spigolosi da rendere quasi difficile la decodifica del testo musicale.

Lo scorso venerdì 17 febbraio, Ivo il Divo è tornato in terra emiliana ed ha chiuso una mini tournée parmigiana che lo ha visto collaborare in date ravvicinate con la Filarmonica Toscanini. Sul leggio, dopo lo Chopin del Concerto op. 21 nella versione per pianoforte e quartetto d‘archi, era la volta dell’atteso Rachmaninov del secondo Concerto op. 19 in do minore. Pagina celeberrima intrisa di ripiegamenti nostalgici e di umori decadenti, essa è da sempre prova del fuoco per l’esecutore, qui chiamato ad accendere la cordiera di incandescente materia sonora. Pogorelich ne ha affrontato i tre movimenti disegnando – sin dall’attacco brumoso di misteriosi accordi contrappuntati dal lugubre presagio del fa grave – un percorso ondulatorio, tutto attese e rese, fatto di anticlimax e di brusche virate dinamiche come il crescendo introduttivo che chiama l’ingresso dell’orchestra, qui spezzato e soffocato in sordi singhiozzi. In generale, una visione difficile da catturare nella sua geometria complessiva, rifranta in frammenti, schegge, istanti talora brillanti di pura, visionaria poesia – alcuni soliloqui disegnati con pregnante intensità – più spesso restituiti con drammatica durezza, con il pianoforte più incline ad affilare lame che ad insinuarsi nel cangiante tessuto musicale. A tenere a bada un mare così tempestoso ed imprevedibile era, fortunatamente, il braccio saldo di Keri-Lynn Wilson, bacchetta di spiccata autorevolezza capace di avvolgere senza farsi risucchiare un pianoforte così saturnino, traghettandone le rigide linee nel damasco della scrittura orchestrale ben tradotta dalla compagine della Toscanini. Un’intesa, quella della direttrice canadese con i Maestri, che già si era lasciata gustare nel magnifico “L’Angelo di fuoco” firmato da Azisa Sadikova, compositrice in residence alla Toscanini: un magma sonoro strisciante, risalente a fatica dalle oscure viscere di un’orchestra fitta di sinestesie, tutta mormorii, echi, trafitture. La voce del violino di Michaela Costea, prima inter pares, si elevava solitaria nel suo canto doloroso, in volo su lacerti di un mondo in frantumi, sopra il gorgoglio di archi pulviscolari, oltre lo scalpiccio dei fiati, meteora anch’essa presto inghiottita nel turbine centripeto di un incalzare inesorabile, fino alla deflagrazione finale, catastrofe o catarsi. Come sarebbe stata bene, qui, nel cimento di un’ennesima prova di bravura, la tromba di Matteo Beschi, recentemente scomparso dopo lunghi anni trascorsi ad impreziosire con il suo talento le file della Toscanini.

E come si sarebbe divertito nelle praterie della Quinta Sinfonia che Prokofiev disegnata dalla Wilson con pennino di precisione, nei perimetri definiti delle sue distese in cui il canto – un canto arcaico, puro, intriso di innocente anima russa - si dilata fino ad incontrare le nubi incombenti di tromboni e tuba. Un affresco popolare di sliricato eroismo, ben distante dalle vaporose ricercatezze della Classica, attraversato da sguaiate apparizioni di fanfare e deliranti figure senza nome, graffiato dal veleno corrosivo di un indomabile sarcasmo, emblema libero ed invincibile di un’umanità capace di elevarsi, anche nella sua essenza più autenticamente triviale, nella sua più vitalistica pulsione, sopra le tenebre della guerra. La vita, la morte e ciò che rimane. Applausi scroscianti.