
Felice ripresa dell'opera di Verdi nell'allestimento "parmigiano" di Pierluigi Pizzi
Un giorno di regno (o Il finto Stanislao, come in seguito è stata ribattezzato) costituisce una tappa importante, seppure in buona parte negativa, all'interno della carriera di Verdi. L'insuccesso della prima rappresentazione alla Scala fu infatti tale da fargli meditare il ritiro dall'attività compositiva; circostanza poi scongiurata dal futuro incontro con il libretto del Nabucco di Temistocle Solera.
Certo, all'ascolto ci si accorge che si tratta di una partitura da cui emergono molto mestiere e poca ispirazione, tuttavia, anche nel mestiere, si intravede comunque qualche sprazzo di talento.
Non sentendosi particolarmente portato per il repertorio buffo, in un periodo peraltro funestato da gravi lutti familiari, Verdi ha preferito ricorrere a strutture tipiche dell'opera rossiniana, dimostrando però di conoscerle molto bene e di potersi permettere di rielaborarle secondo uno stile personale. Pertanto quello che si ascolta in questo lavoro giovanile non è una semplice fotocopia sbiadita di Rossini, ma è già comunque Verdi, anche se molto acerbo. Non mancano infatti momenti decisamente felici, nei quali si intravedono i germi del Verdi che verrà: mi riferisco ad esempio al bellissimo quintetto del primo atto, preludio di quei grandi concertati che caratterizzeranno i titoli della maturità.
Lodevole quindi che il Teatro Regio di Parma abbia scelto di inserire in stagione questo titolo desueto, ed ancor più lodevole il fatto che abbia scelto di riproporre il felicissimo allestimento creato da Pier Luigi Pizzi, curatore di regia, scene e costumi, nel 1997.
Restando fedele al periodo storico, Pizzi ha scelto di spostare l'azione dalla Bretagna all'Emilia, facendo particolare riferimento al territorio parmense. Ecco quindi architetture che ricordano scorci del Palazzo Ducale e della Biblioteca Palatina, all'interno dei quali fanno sfoggio i prodotti alimentari tipici della zona quali insaccati, prosciutti e forme di parmigiano.
Un intelligente sistema di quinte mobili, che permettono continui cambiamenti a vista dello spazio scenico, funge da ambiente alla vicenda, che qui si immagina svolgersi all'interno di una "folle giornata" che inizia con la prima colazione, che precede la toeletta del mattino e prosegue via via fino a concludersi con il banchetto per le doppie nozze. L'eleganza dei costumi e l'efficacia delle luci firmate da Vincenzo Raponi hanno contribuito a completare un allestimento di grande equilibrio e formidabile impatto visivo.
A voler esser cavillosi si potrebbe sottolineare che la regia abbia un po' trascurato l'effetto buffo, ricorrendo a soluzioni molto lineari ed estetizzanti, ma almeno questo ha permesso di evitare quel campionario di eccessi e sguaiataggini che a volte sono sinonimo di opera comica.
Discorso analogo si può fare per la componente orchestrale: Donato Renzetti, alla testa dei complessi del Teatro Regio, ha infatti fornito una buona prova dal punto di vista narrativo e di tenuta orchestrale, ma la sua concertazione era priva di quella leggerezza che questo tipo di repertorio richiederebbe. Timbri e sonorità anziché andare in direzione rossiniana ricordavano più quelli di un Verdi degli "anni di galera".
Decisamente appropriata la scelta del cast, su cui spiccavano l'eccellente Marchesa di Anna Caterina Antonacci e la Giulietta di Alessandria Marianelli. La prima ha sfoggiato una voce di grande fascino che, unita alle indiscutibili doti istrioniche, le ha permesso di caratterizzare il suo personaggio sia nel versante aristocratico che in quello comico, in particolare nella spiritosa scena del bagno; la seconda, oltre ad esibire una tecnica ed una padronanza dello strumento davvero rimarchevoli, si è confermata interprete attenta e sensibile, al punto che si potrebbe definirla una giovane promessa, se non fosse che ormai è già una certezza.
Nel versante maschile spiccava l’ottimo Tesoriere di Paolo Bordogna, distintosi per la brillante verve con cui ha condito il suo personaggio, in particolare negli spiritosi duetti con l’efficace barone di Andrea Porta.
Ivan Magrì è stato un Edoardo dal timbro squillante, che ha saputo trovare gli accenti migliori nel corso del secondo atto, mentre il Cavalier Belfiore di Guido Loconsolo, seppur artefice di una buona prestazione, è mancato di quell’autorevolezza che richiederebbe un protagonista.
Completavano il cast il Conte di Ivrea di Riccardo Mirabelli e il Delmonte di Seung Hwa Paek.
Al termine applausi festanti per uno spettacolo che,nonostante i 13 anni di vita, si è dimostrato ancora perfettamente attuale.
Davide Cornacchione 30/01/2010