Le stagioni liriche all’aperto, è risaputo, sono luoghi dedicati a produzioni fastose e spettacolari in cui l’elemento scenogr...
Le stagioni liriche all’aperto, è risaputo, sono luoghi dedicati a produzioni fastose e spettacolari in cui l’elemento scenografico necessariamente prevale sulla parte più prettamente musicale.
D’altronde è evidente che, pur senza arrivare al celebre aforisma di Toscanini secondo cui “All’aperto si gioca solo a bocce!”, in spazi di tali dimensioni, esposti oltretutto a rumori esterni ed eventi atmosferici, l’acustica non è assolutamente comparabile con quella di un più tradizionale teatro.
Se poi all’interno della suddetta stagione viene proposta un’opera oratoriale, che perciò prettamente teatrale non è, e quindi non può avvalersi del supporto visivo, è chiaro che lo spettatore deve porsi nei suoi confronti con un impegno ed una predisposizione all’ascolto decisamente superiore rispetto ad occasioni più ordinarie.
Non voglio con questo lanciarmi in una riflessione sull’opportunità o meno del Requiem in Arena; giammai! Trovo la scelta assolutamente opportuna per non dire doverosa, nei confronti sia dell’autore sia della composizione stessa, che merita di essere conosciuta ed approfondita dal maggior numero di fruitori possibile e, per il bacino di pubblico che può vantare l’Arena, non può che essere un’occasione straordinaria per rafforzare questo assunto. Tutt’al più questa considerazione può rivolgersi a coloro che alla fine dello spettacolo lamentavano una serata musicalmente poco impetuosa e trascinante. Ad essi chiedo: “Come è possibile che una composizione nata per essere suonata in una chiesa possa essere valutata con lo stesso metro anche in uno spazio che è almeno cinque volte tanto?” Calcolando inoltre che in siffatte platee per la maggior parte del pubblico l’opera inizia al “Te decet hymnus”, visto e considerato il pianissimo delle battute iniziali del “Requiem”(che solo così può essere suonato!) risulta praticamente impercettibile anche all’orecchio più accorto ed allenato. Anzi, generalmente costituisce momento di protagonismo per l’incivile di turno e la garrula suoneria del suo stupido telefonino (episodio peraltro puntualmente ripetutosi anche in quest’occasione).
Fatte queste debite premesse posso in ogni caso ritenere l’esperienza di venerdì 29 giugno complessivamente riuscita, e questo grazie soprattutto all’intensa concertazione offerta dal maestro Prêtre (che io sì ho trovato trascinante), che ha saputo far risuonare l’orchestra ed il coro dell’Arena in maniera sicuramente più incisiva di quanto il pallido Maazel abbia ottenuto nelle sue ripetute esperienze veronesi e come in ogni caso si sente raramente fare durante le varie stagioni liriche.
La concertazione di Prêtre è asciutta, granitica, soprattutto nella “Sequenza”, in cui indugia pochissimo sulle corone, dando vita a un “Dies irae” di una potenza tellurica ma mai eccessivamente compiaciuto. Al contrario la sua visione del Giudizio Universale è catastrofica, disperata ma estremamente lucida, quasi momento necessario nel cammino verso la redenzione. Ed in questo turbinio, coro ed orchestra vengono sempre tenuti sotto un vigile e preciso controllo per evitare indugi ed abbandoni che sicuramente avrebbero stonato con questo tipo di lettura.
Il discorso cambia nella seconda parte, nella quale invece, in contrapposizione alla precedente, inizia a materializzarsi una visione dell’Aldilà intesa più come salvazione che come punizione.
Anche in questo caso la visione di Prêtre mi ha sostanzialmente convinto, soprattutto nel “Sanctus”, forse il brano più originale e più personale di questo concerto. Mai, infatti, mi era capitato di sentirne l’inizio reso con tale gioia e leggerezza (straordinari i flauti), quasi si trattasse della visione del Paradiso Terrestre (almeno questa è l’immagine che quel momento mi ha suggerito), per poi aprirsi in quell’apoteosi di gioia che si conclude nell’”Osanna in excelsis”.
Per quanto riguarda l’analisi degli altri momenti, essendovi inscindibilmente coinvolti anche i solisti, ritengo sia li caso di soffermarsi anche sulle prestazioni di questi ultimi.
Da questo punto il versante femminile ha nettamente surclassato quello maschile; non a caso infatti i momenti affidati ai soli soprano (Daniela Dessì) e mezzosoprano (Daniela Barcellona) si sono rivelati tra i più riusciti. Ho particolarmente apprezzato infatti sia il “Recordare”, sia soprattutto l’inizio “a cappella” dell’”Agnus Dei”, in cui le due interpreti, eccellenti nell’assecondare le indicazioni del direttore, hanno mantenuto viva l’atmosfera che si era creata nel precedente “Sanctus”.
Rimarchevole anche l’interpretazione di Daniela Dessì del conclusivo “Libera me Domine”, cellula primigenia dell’intero Requiem.
Al contrario, come anticipato, William Joyner, tenore, ed Enrico Iori, basso, non hanno saputo reggere il confronto con le loro colleghe.
Se per Enrico Iori, peraltro subentrato all’ultimo momento a sostituire il previsto Carlo Colombara, su può parlare di una prestazione tutto sommato non particolarmente intensa ma comunque corretta (il “Confutatis” è passato via senza particolari scossoni né in bene né in male) l’esibizione di Joyner ha suscitato invece più di una perplessità. Già nell’”Ingemisco” il suo tentativo di alleggerire la voce si risolveva in una monocorde mezzo-forte che lo portava a strozzare gli acuti, e questa situazione si è ripetuta nell’”Hostias” , in cui il succitato tentativo di Prêtre di creare nella seconda parte della composizione un’atmosfera più ieratica e serena (quale peraltro è nelle intenzioni stesse dell’autore) si è arenata in questo caso contro l’inadeguatezza del tenore che perniciosamente ha trascinato fuori registro anche gli altri tre solisti.
Alla fine, comunque, meritati applausi da parte del non proprio foltissimo pubblico (d’altronde mancavano in quest’occasione i Pavarotti ed i Bocelli, in grado al contrario di riempire gli stadi, qualunque cosa facciano) ed un’ovazione per lo straordinario Prêtre.
Davide Cornacchione