Recensioni - Cultura e musica

Una lezione di musica inaugura la stagione del Teatro Grande

La Budapest Festival Orchestra diretta da Iván Fischer in una magistrale esecuzione del concerto per violino di Mendelssohn e della quinta di Mahler

Fare musica come atto naturale e bisogno irrinunciabile. Come respirare. La lezione di Schumann che si materializza in un’orchestra che canta, e che fa del canto il paradigma di un approccio fisico, viscerale, totalizzante al fiato che si fa suono. Lo scorso venerdì 24 gennaio, in occasione dell’appuntamento inaugurale con la Stagione Concertistica, Brescia accoglieva sul palco del Teatro Grande la Budapest Festival Orchestra diretta dal suo fondatore Iván Fischer, regalando al suo pubblico da (quasi) tutto esaurito uno di quei concerti destinati ad essere ricordati per la vita.

Ben prima di approdare a quel miracolo che avremmo ascoltato nella seconda parte di serata, un attimo prima di intrecciare con il violino elegante e narciso di Renaud Capuçon un intenso dialogo sul terreno del Concerto in mi minore di Mendelssohn, era la deliziosa Schnell Fliehen die Schatten der Nacht firmata dalla sorella Fanny a distribuire all’uditorio il biglietto da visita di questa compagine straordinaria: posati gli strumenti a terra, disposti là dove un attimo dopo li avrebbero ripresi, erano gli stessi orchestrali a cimentarsi – con la mirabile naturalezza di voci ordinarie eppure capaci di una plasticità che diceva di una consuetudine antica, familiare, al canto d’insieme - nella squisitezza di un cammeo dalla raffinata maglia polifonica. Pane quotidiano, in terra magiara, quello della pratica vocale corale, imprescindibile esercizio alla sbarra per venire a contatto con la propria identità con la quale, poi, prendere un posto nel coro della vita. Ed era nel cuore dell’orchestra, più che sulla cordiera aristocratica di Capuçon, che il bosco fatato di Mendelssohn, punteggiato di barbagli shakespeariani, prendeva vita nel fremente pullulare delle sue voci, nell’alito di vento che sa di nord, di magia, di notte. Da lì, il canto dipanato dallo strepitoso Panette Guarneri del Gesù nel 1737 trovava ad avvolgerlo, ad assecondarlo, un tessuto strumentale smerigliato ad arte, guizzante senza nervosismi, intimamente conversativo, pronto a raccogliere e a rilanciare ogni spunto del solista.

Ma era nel grandioso affresco della mahleriana Quinta Sinfonia - oltre un’ora di musica come un unico arco – che il bosco si faceva foresta, labirinto di angoscia e di catarsi avviato dalla livida fanfara di tromba che annuncia la Marcia Funebre iniziale. La morte che, nella visione di Fischer, si affacciava imperiosa nel tactus ancora palpitante, ancora presente, dell’ultimo barbaglio di vita capace, con il suo urlo straziato, di far fremere l’intera orchestra, a sua volta libera, plastica come poche altre, morbida anche quando dilaniata da squarci. Con la pazienza di chi conosce il sentiero ne rispetta leggi e creature - vive e morte, animali, vegetali, minerali - condottiero di un esercito senza gerarchia, Fischer si addentrava tra gole e dirupi oscuri, distillando una narrazione così naturale, così vera, da sgorgare quasi per miracolo, senza artificio, davanti agli stessi occhi stupefatti dell’ascoltatore. Mahler visitato là dove la sua voce parla ancora.

Epurato di quegli spigoli caricaturali che troppo stesso ne alterano il profilo in sommari clichés; camminante, narrativo, morbido anche quanto percorso da scosse febbrili. In questo sta la grandezza di questo gigante della bacchetta che ai divismi della ribalta preferisce la silenziosa artigianalità del lavoro di bottega: nell’umanità della sua angolazione senza giudizi morali, intimamente indulgente, onesta nel percorrere i toni del grottesco, del terrifico, del tragico, senza mai farne luoghi già esplorati. Solo con questa capacità di danzare, libero, limpido, sopra l’abisso, è possibile scorgere la bellezza delle cose: solo osservando e accettando, solo abbracciando con lo sguardo, e poi con gli altri sensi, si può amare. Comprendere non è di questo mondo. Accogliere la sorpresa è l’unico modo per governarlo. Anche quando si tratta di una triviale fanfaretta che, nella sua sete di vita, rivela già il passo della morte, così come fa il monito della tromba, anche a viaggio inoltrato, dal fitto della vegetazione, voce tra le voci. Ancora lei, lontana ma sibillina, a ricordare che il tempo scade, che la candela si accorcia.

Nel gesto plastico ed esatto di Fischer, l’essenziale, la richiesta, è sempre di accostarsi alla bocca di Mahler, a coglierne il respiro del pensiero, lo sguardo sul mondo: il querulo agitarsi dei fiati, uccelli spaventati che si alzano in un volo maldestro, il canto dolente dei violoncelli, nel fiume di canti popolari che scorre lungo l’intera Sinfonia, tra brandelli di melodie klezmer ed incerti valzer affioranti dalla memoria, intrisi in un vago color seppia di immagini pescate da una memoria sfuocata. E l’ipnotico pizzicato di archi, svelati dalla scia trasognata del corno (un incanto!) che, ultimo erede del mondo fatato e oscuro del Wunderhorn, mima con la sua danza di ombre, un Bruder Martin già rivolto alle straniate atmosfere della Nachtmusik della Settima sinfonia. Pochi direttori, oggi, possiedono quest’arte fatta di custodire il fuoco, ravvivando braci apparentemente estinte. Pochi conducono il discorso musicale con questo senso di attesa, di pacata, bruciante sorpresa, costantemente, pudicamente sulla soglia di una rivelazione, di un’epifania, che è bello attendere. Così era anche per il celeberrimo, Adagietto, che Fischer rendeva un canto sospeso sul vuoto, struggente, riconciliante consegna di un cuore messo a nudo attraverso le chiavi di un suono polveroso, d’antan. L’estremo dono di sé che, mentre si spegne, finendo per tornare là, al silenzio da cui era affiorato, annuncia il risveglio della natura, dalle ceneri del suo canto più struggente.

All’orizzonte, dopo tanta sofferenza, dall’orchestra il direttore pescava, una ad una, ricomponendole in un mirabile arazzo, le voci di una danza rustica, a tratti ruvida, sincera in cui anche le ombre, i demoni che continuano ad occhieggiare, ad un passo, vengono risucchiati e per una volta esorcizzati, in una rutilante ricapitolazione che conduce, vittoriosa, al finale. Applausi generosi e meritatissimi. Una lezione di musica.