Recensioni - Cultura e musica

Una raffinata Petite Messe Solennelle inaugura la nuova edizione di Vicenza in Lirica

Piccola e solenne: in questi due termini si racchiude l’ossimoro di quello che Gioacchino Rossini definì il suo ultimo peccato mortale. La Petite Messe Solennelle è infatti l’unica composizione di ampio respiro, insieme allo Stabat Mater, scritta nei quasi quarant’anni che vanno dal debutto di Guglielmo Tell alla morte del compositore pesarese. Anni costellati da schizzi per pianoforte, arie e musica da camera, che per alcuni versi si possono considerare una sorta di cartone preparatorio di questa sua ultima composizione, che, nonostante contenga tutti i brani canonici della messa, con l’aggiunta di un preludio religioso e un Salutaris Hostia, nasce con intenti squisitamente cameristici. Quattro solisti e otto coristi, sostenuti da un pianoforte principale, uno di ripieno, ed un harmonium sono l’organico che Rossini specifica in partitura, quasi si trattasse di una cerimonia privata. Non a caso la prima esecuzione avvenne proprio in un salotto nell’ambito delle “Soirees musicales” che lo stesso Rossini organizzava negli ultimi anni del suo soggiorno francese. Ed è proprio con questa partitura, solenne ed allo stesso tempo intimista, che, nella suggestiva cornice del Teatro Olimpico, si è inaugurata l’edizione 2019 del festival Vicenza in Lirica. Principale artefice di questa magnifica esecuzione è stato il pianista e direttore d’orchestra Michele Campanella, che alla tastiera del pianoforte principale, Coadiuvato dagli ottimi Monica leone al secondo piano forte e Silvio Celeghin all’harmonium, ha anche svolto il ruolo di concertatore, dirigendo il coro della Schola San Rocco preparato da Francesco Erle e quattro solisti d’ eccezione.

Campanella opta per una lettura cameristica, molto attenta alle sfumature, che rifugge sonorità piene e turgide, nonostante il suo organico preveda 45 coristi anziché gli 8 prescritti, ispirandosi più alla polifonia seicentesca che alla tradizione operistica di cui Rossini fu esponente. Alla base della sua visione vi è una grande ricerca del suono, non a caso è il pianoforte, posto inusualmente al centro della scena, con solisti e coro alle spalle a semicerchio, ad indicare che è proprio sulla base dello strumento che si deve plasmare la componente vocale. Non mancano comunque bellissimi momenti a cappella, cesellati con squisita raffinatezza quali ad esempio il Sanctus da cui emerge una grande spiritualità. Infatti uno degli indiscutibili meriti di questa esecuzione è il non aver trascurato l’aspetto sacro dell’opera che si sposa con la raffinatezza di un’esecuzione attenta ed emotivamente partecipe.

Grande merito va attribuito anche al quartetto dei solisti. Il soprano Barbara Frittoli vanta timbro sontuoso e grande ricchezza di armonici. La sua è un’interpretazione intensa, ricchissima di colori, che si piega ai toni drammatici e raccolti della partitura. Sara Mingardo si conferma una delle più belle voci di mezzosoprano attualmente sulla scena. Il suo timbro brunito ed un fraseggio esemplare sono alla base di un Agnus Dei dolente, giocato sul filo della voce che, complici i misuratissimi interventi del coro, costituisce il momento più alto di tutta l’esecuzione. Il tenore Alfonso Zambuto si distingue per il timbro squillante ed una bella linea di canto che gli permettono di emergere nel Domina Deus, mentre il giovane e promettente basso Davide Giangregorio, ha timbro pieno e rotondo che piega con grande facilità alle esigenze del canto, rivelandosi interprete attento e partecipe.
Al termine meritato Successo da parte di un teatro olimpico completamente esaurito