Recensioni - Cultura e musica

Valchiria nel giorno del crepuscolo.

Ottima ripresa del capolavoro wagneriano nell’edizione firmata dalla Fura dels Baus nei giorni del commissariamento del Maggio Musicale Fiorentino

Mi permetto solo di considerare però che, dato lo stato precarietà in cui attualmente versano molte fondazioni liriche e teatri di tradizione,  la soluzione al problema non sta nel puntare il dito contro questo o quel sovrintendente, ma più probabilmente nell’avviare finalmente una riforma radicale di  un’istituzione il cui impianto è ormai obsoleto e incapace di adeguarsi ai nostri tempi ed alle nostre esigenze.
Ad ogni modo la serata, aperta da una protesta fuori dal teatro di alcuni dipendenti del teatro contro i  licenziamenti recentemente deliberati, si è conclusa con l’abbraccio del pubblico all’orchestra che il direttore Zubin Mehta ha voluto al completo sul palcoscenico per gli applausi finali, a testimoniare che il Maggio, nonostante il momento difficile, è sempre un’istituzione vitale e costituita da professionisti eccellenti. Nel mezzo: le cinque ore della suggestiva Valchiria della Fura dels Baus.
Lo spettacolo era una ripresa dell’allestimento del 2007, parte integrante del Ring coprodotto con il Palau de les Arts di Valencia.
Dal punto di vista registico il gruppo teatrale catalano ha optato per una lettura più rappresentativa che interpretativa del ciclo wagneriano. Se negli anni ’70 Patrice Chérau aveva fatto entrare la borghesia nel salotto buono degli dei, aprendo ad una tradizione che ha via via sempre più imborghesito ed attualizzato la visione del Ring, la Fura ha scelto di recuperare le indicazioni originarie dell’autore rendendole però attraverso un linguaggio contemporaneo.
Ecco quindi una Valchiria che oscilla tra il barbarico e l’ipertecnologico. La scenografia infatti è costituita da un’enorme parete sulla quale scorrono in continuazione immagini, mentre sulla scena, i personaggi sono vestiti con fogge che mescolano la fantascienza alla preistoria e la casa-focolare di Hunding altro non è che un cerchio di pietre, quasi fossimo in un accampamento nomade. Azioni e movimenti sono quindi estremamente semplici e prive di quell’eccesso di sovrastrutture cerebrali cui la gran parte dei registi ci ha ormai abituato. Il racconto avviene sullo sfondo, grazie al sofisticatissimo e suggestivo caleidoscopio di proiezioni che si susseguono nel corso dell’opera.
Da questo punto di vista si deve rendere atto a Carlus Padrissa ed ai suoi collaboratori di avere dato sfogo ad una fantasia senza limiti. Molti infatti sono i momenti di grande efficacia come ad esempio lo sbocciare della primavera che caratterizza il finale del primo atto, o la discesa dallo spazio siderale alla rupe sulla quale Brünnhilde si addormenterà, oppure la geniale soluzione di Wotan schiacciato dal peso delle Rune nel momento in cui giura a Fricka che non interverrà a favore di Siegmund; mentre altri sono risultati più didascalici e forzati, come ad esempio la doppia elica del DNA che si snoda lungo il tronco del frassino quando si parla della nascita della stirpe dei Welsi.
Perfettamente in linea con il suo stile la Fura anche in quest’occasione non ha rinunciato all’impiego di macchinari tecnologici, in questo caso rappresentati da una serie di gru che in buona sostanza sostituivano i cavalli sui quali si muovono le Valchirie (e nello specifico anche gli dei), creando soluzioni di grande effetto.
Certo, tale e tanta attenzione alla componente visiva e tecnologica ha un po’ penalizzato il lavoro sugli attori, i cui rapporti il più delle volte erano solo abbozzati in movimenti generici, ma nell’economia complessiva dello spettacolo si è trattato di peccato veniale.
Alla testa dei complessi del Maggio Zubin Mehta si è riconfermato come uno dei massimi interpreti wagneriani viventi, regalandoci una Valchiria estremamente intimista, lontana anni luce dall’ipertrofica e retorica magniloquenza cui una certa tradizione ci ha abituati.
Il suono era sempre molto misurato, attento a raccontare ed a penetrare nell’animo dei singoli personaggi. Una lettura che si rifaceva alla lezione di Karajan, resa ancora più personale dalla cura dell’esecuzione e dalla ricerca del colore e del dettaglio. Veramente magnifica.
Adeguato anche il cast vocale. Jennifer Wilson, nel ruolo del titolo, ha sfoggiato acuti svettanti e sicuri non supportati però da un registro centrale perfettamente a fuoco. La sua interpretazione è stata comunque segnata da momenti di grande intensità quale ad esempio tutta la seconda parte del terzo atto.
Juha Uusitalo, nonostante la non perfetta forma vocale che ne ha penalizzato le parti più eroiche, ha delineato un Wotan estremamente introspettivo, in perfetta sintonia con la linea scelta da Mehta. Il lungo monologo del secondo atto è stato reso con rara maestria e convinzione.
Torsten Kerl e Elena Pankratova, ambedue in ottima forma vocale, hanno delineato in modo  convincente i fratelli-amanti Siegmund e Sieglinde.
Daniela Denschlag è stata una Fricka dai toni aristocratici, attenta alla linea di canto ed alle sfumature del personaggio.
Meritevole di menzione positiva anche il gruppo delle valchirie composto da Bernadette Flaitz, Jacquelyn Wagner, Pilar Vázquez , Maria Radner, Eugenia Bethencourt, Julia Rutigliano, Patrizia Scivoletto, Stefanie Iranyi. 
Al termine applausi convinti per tutti con meritate ovazioni per Mehta e l’orchestra.

Davide Cornacchione 24 gennaio 2013


Una curiosa coincidenza ha voluto che l’ultima replica della Valchiria inaugurale della stagione 2013 del Maggio Musicale Fiorentino abbia avuto luogo il giorno successivo al commissariamento della Fondazione da parte del Ministero.
Trattandosi di questioni che riguardano più la sfera politica che quella artistica preferisco astenermi dal commentare.