Recensioni - Cultura e musica

Violoncello e pianoforte al Festival di Menton

Intenso concerto di Anastasia Kobekina e Tristan Pfaff,  cui hanno fatto seguito i recital di Jodyline Gallavardin, Déodat de Severac e Beatrice Rana

Al momento, inutile cercare. Se di entrambi abbondano testimonianze video alle prese con svariate partiture e formazioni, di loro come duo la rete non porta alcuna traccia. Un insieme dall’inchiostro ancora fresco, quello costituito da Anastasia Kobekina e Tristan Pfaff, rispettivamente violoncello e pianoforte di superba caratura, già capace di un camerismo audace ed avvolgente, punteggiato di preziosismi annidati sotto un’affabilità senza vezzi. Ha saputo cambiare pelle senza tradire le proprie radici, il Festival de Musique di Menton. Gloriosa roccaforte di mostri sacri negli anni postbellici, quando complice lo scenario mozzafiato della Côte d’Azur erano di casa Benedetti Michelangeli, Gilels, Richter, Rostropovich, la manifestazione giunta alla sua 72esima edizione si è fatta più dinamica, aperta, inclusiva. in una parola, più giovane. La direzione artistica di Paul Emmanuel Thomas ha infatti optato per una rosa di interpreti già consacrati sulla scena internazionale riservando, tra questi, uno spazio privilegiato alle voci emergenti, alcune già note al grande pubblico, altre in via di definitiva affermazione.

Per due giornate consecutive, il 1 e 2 agosto scorsi, il Palais de l’Europe della città è stato infatti ideale scenario per un susseguirsi di nomi da annotarsi e fissare definitivamente tra le personalità da seguire nel tempo. Voci differenti, ognuna delle quali portatrice di una visione personale, acuta, convincente. Kobekina e Pfaff, dunque, chiamati ad aprire le danze con lo Schumann dei Phantasiestücke op.73 e a tracciare subito un filo nell’aria. Sottilissimo, teso sul silenzio della sala. Da un lato, la discrezione misurata di una conduzione puntualissima quanto introspettiva, a tratti compressa nell’esplicitazione del suo dire. Dall’altro, la sensuale avvolgenza di una narrazione tesa a cercare l’ascoltatore, catturarlo e condurlo per mano attraverso l’esaltante sentiero della pagina. Pianoforte e violoncello dagli sguardi complementari, rivolti ognuno ad un versante del filo, tra dentro e fuori, tra generosa conservazione e prudente esuberanza, ma al tempo stesso capaci di condividere, con i loro rispettivi temperamenti, un orizzonte poetico già sorprendentemente comune. Ne veniva un racconto accorato, a tratti trepidante, volto a cogliere di queste tre miniature il trascolorare degli umori: il fantastico, l’umoristico, il febbrile, in un gioco di rimandi che già faceva pensate ad un duo di rodata esperienza. Intesa che le architetture impervie delle due Sonate in programma – l’op. 69 di Beethoven e l’op. 38 di Brahms – anziché minare mettevano ancor più in risalto.

La straordinaria ricchezza e luminosità delle tinte che adornano la fattura della terza e più famosa delle cinque creature beethoveniane, la distesa e ricca cantabilità affidata all’arco, esplorato nei suoi registri tutti, quasi a sondarne tutte le risonanze poetiche. La larga campata dello Scherzo, nei suoi cinque pannelli attraversati da una scrittura via via più inquieta che culmina nella breve sosta, intensissima, dell’Adagio, già volto giubilante finale. E la sincerità pastosa ed energica del capolavoro brahmsiano, con il suo Allegretto quasi minuetto esaltato nel suo ritmo danzante, leggermente venato di malinconia, da valzer triste, e la poderosa fuga del movimento finale, a ricordare quanto debito bachiano abiti nelle stanze del divino amburghese. A dare ulteriore smalto alla resa, i superbi strumenti a disposizione degli interpreti. Per Pfaff, un Bösendorfer dalla strepitosa pasta sonora, appena uscito dalla fabbrica ed inaugurato proprio in questa occasione; per la Kobekina, il magnifico Guadagnini del 1740 che invece su queste note avrebbe preso congedo dalla sua giovane custode per tornare in possesso del suo fortunato proprietario e mecenate.

La sera dopo, il 2 agosto, la sfiancante maratona della Nuit du Piano – tre recital consecutivi affidati a talenti emergenti - metteva in luce la personalità acuta ed investigatrice di Jodyline Gallavardin, tessitrice di un racconto nelle cui scelte già appariva chiara l’intelligenza dell’interprete. Scelte cucite su misura addosso alla propria personalità, alle proprie caratteristiche strumentali, ma anche manifesti di un intento culturale in cui il patrimonio della letteratura delle periferie, dei margini, dei poeti dimenticati, saliva in cattedra e dettava il passo. Ecco allora, tra cluster e sonorità aspre, tra echi di inni lontani e motti persi in brume remote, il mondo di Henry Cowell e delle sue Three Irish Legends, e ancora, quello di Déodat de Severac, immerso in un Sud pervaso di tensioni mistiche. A contrappunto, la Valse raveliana, che sacrificava qualche accento del suo straripante erotismo a favore di un incalzare asciutto e mordace, di lucida conduzione. Accanto alla pianista francese da tempo di stanza all’Accademia di Imola, si distingueva per classe e rifinita strumentalità Philipp Scheucher, anche lui autore di un itinerario d’ascolto caratterizzato da proposte alquanto inusuali, a cominciare dal Beethoven raro, ancora immerso in una patina di manierato accademismo biedermeier, delle 24 Variazioni “Venni amore” di Vicenzo Righini, e dell’ancor più rara Sonata quasi Fantasia di Zerline Erfurt. Coetanea ma, lei sì, già consacrata a semidivinità dal pubblico internazionale, autentica beniamina di quello francese, Beatrice Rana approdava, la sera dopo, sul Parvis della Basilique, da sempre location riservata agli interpreti stellati, per un recital da Bach a Chopin scandito dal filo rosso di una digitalità rapsodica e piegata alla duttilità di una matrice quasi estemporanea, improvvisativa. La seconda Suite Francese, il prezioso premier Livre degli Études debussiani con il suo sotteso Gradus ad Parnassum, la sontuosa cattedrale dei quattro Scherzi. Un recital trionfale, dipanato con una naturalezza che non smette di sorprendere e che già fa presagire un ingaggio all’edizione numero 73. Sarebbe, per la pianista pugliese, la quarta volta al Festival; un record prodigioso, in soli ventotto anni di vita.