Recensioni - Cultura e musica

Weithaas, Hecker, Helmchen: una festa a metà

Eccellente esibizione del trio da camera al Teatro Sociale di Mantova

Doveva essere una festa: tre cameristi d’alto rango per suggellare il ritorno alla musica al Teatro Bibiena, nel miracolo di un’acustica che avvolge, ritorna, insinua. Quella dello scorso 17 novembre, seconda data del cartellone di Tempo d’Orchestra in cui attesi protagonisti erano Antije Weithaas, Marie Elisabeth Hecker e Martin Helmchen, è stata invece una festa a metà. La piena capienza delle sale ha infatti comportato la cancellazione all’ultimo della seconda data e, con essa, il bisogno di uno spazio più ampio per contenere i numeri complessivamente previsti per i due appuntamenti. Unica scelta possibile, il Teatro Sociale.

Poche centinaia di metri in linea d’aria che nella qualità della cornice e soprattutto della resa si fanno distanze siderali; così, di colpo la festa si ritrovava immersa in un alone di malinconia. Al di là dell’emergenza prontamente risolta, una città Patrimonio Unesco che da anni ambisce al meritato riconoscimento di polo culturale e turistico non può non fare i conti con lo stato di salute di quello che dovrebbe essere il suo primo luogo di fruizione musicale e che invece appare rassegnato ad un triste quanto inarrestabile declino, con il doloroso scarto tra futuribili potenzialità e attuali possibilità. Un’acustica secca, polverosa, sterilmente lanciata verso l’alto anziché verso la sala, ostacolava sin dalle premesse quella vivacità di scambi, di sguardi, che del camerismo è essenza fondante; più dell’abbraccio tra le tre cordiere, essa finiva per restituire all’uditorio, anziché la bellezza di un corpo svelato nel disegno delle sue linee, la sua impietosa radiografia di ossa, fili, cavità. Peccato.  Mentre scorreva lo Schubert dell’op.99, creatura magica e dioscurale rispetto alla consorella dell’op.100, non potevamo smettere di pensare all’effetto che l’ordito così minuziosamente teso dai tre strumentisti, la sorvegliata raffinatezza di un fraseggiare sapiente, il cesello di un narrare pudico e prezioso insieme, avrebbero avuto in uno spazio degno di tanta bellezza.

Tre strumentisti pronti a passarsi il testimone, a rinunciare all’ultima parola in virtù di una comune partecipazione al disegno complessivo; la pagina indagata evitando puntualmente di forzare la mano, di alzare la voce. In questo esercizio di eleganza e di dedizione, la naturale aristocrazia del pianoforte di Helmchen, collante segreto, impercettibile quanto puntuale, al più pronunciato intreccio degli archi, incontrava, in un gioco di incastri, l’accorata espressività del violino della Weithaas - una danza composta ed avvincente, la sua, a cercare il suono sul fiato, nelle viscere dell’arco – e la morbida autorevolezza del violoncello della Hecker. Chissà cosa avrebbe potuto dirci, in un ritorno di suono davvero degno di questo nobile camerismo, l’incipit del secondo movimento, il canto cullante del violoncello che diventa, in un’osmosi ipnotica, quello sussurrato, a labbra chiuse, del violino, reminiscenza e preludio di una segreta felicità. E chissà se ci avrebbe fatto la stessa impressione di impettito garbo il Terzo movimento, delizioso seppur silenziato di quella punta di corrosiva ironia che lo percorre. Un tratto, quello di una misura esatta al limite della sottrazione, che si coglieva ancor più nell’immaginifica, tracimante scrittura schumanniana dei Fantasiestücke op. 88, attraversata da quel sovreccitato Humor che è guizzo, improvviso scarto emotivo, incontenibile slancio vitale. A questa cristallina lettura, seguiva, ad intenso suggello, l’affresco sanguinante e magnifico del Trio op. 7 di Shostakovich, il suo canto strozzato affidato violoncello posto a sipario di un dramma in quattro movimenti in cui i riverberi della vita come cognizione del dolore sembrano scorrere come stazioni di una laicissima via crucis dove canto e riso, volto e sardonica maschera, altro non sono che facce – tragiche anche quando ridanciane – della stessa straziante commedia alla cui rappresentazione mancava, qua e là, l’ingrediente di una più ardita, chiaroscurale ruvidezza.