Recensioni - Cultura e musica

Werther in technicolor

Al Regio di Parma Francesco Meli ha debuttato nel capolavoro di Massenet in un allestimento di grande impatto visivo

Werther di Jules Massenet è un titolo che, pur avendo sempre riscosso una discreta fortuna sin dal suo debutto, non è mai riuscito ad entrare a pieno titolo nel grande repertorio. Va detto peraltro che non tutti i numeri dell'opera si possono considerare allo stesso livello, infatti ad un terzo atto musicalmente splendido, ascrivibile alla lista dei capolavori, fanno da contraltare un primo ed un secondo atto in cui convivono ispirazione e retorica ed un quarto atto che altro non è che un lungo duetto che coniuga amore e morte, tematiche tanto care al romanticismo ma non sempre sufficienti a sostenere una efficace drammaturgia.

Per questo motivo, soprattutto in Italia, la messinscena di Werther è il più delle volte subordinata alla presenza del tenore che, in sostanza, costituisce la vera attrazione.
Questo nuovo allestimento prodotto dal Teatro Regio di Parma aveva come principale motivo di interesse la presenza del giovane tenore Francesco Meli,  che debuttava in quest'opera e che alla luce dei risultati non ha tradito le aspettative.
Meli, nonostante sia in carriera da pochi anni, si è riconfermato come una delle voci di tenore lirico più belle attualmente in circolazione. Timbro rotondo e squillante, facilità negli acuti, buona padronanza del fraseggio, sono tutte caratteristiche che contribuiscono a fare di lui un musicista eccellente.
Certo si potrà obbiettare che l’interpretazione era ancora un po’ acerba, che il personaggio, soprattutto nei primi due atti, non era perfettamente interiorizzato e messo a fuoco, ma bisogna anche tenere presente che pur sempre di debutto si trattava. Sono convinto che se in futuro avrà la possibilità di cimentarsi ancora nel ruolo, il cantante ha tutte le carte in regola per diventare uno dei Werther (se non “il Werther”) di riferimento.
Altrettanto valida compagna di percorso era la Charlotte di Sonia Ganassi, vocalmente in gran forma ed emotivamente molto partecipe: la scena della lettera del terzo atto è stata accolta da meritatissimi apllausi.
Completavano il cast l’efficace Sophie di Serena Gamberoni, il convincente Albert di Giorgio Caoduro, il puntuale Borgomastro di Michel Trempont e Nicola Pamio ed Omar Montanari nei ruoli di Schmidt e Johann.
Vera punta di eccellenza della produzione è stata però la direzione di Michel Plasson, veterano del titolo, che ha saputo ricavare dall’orchestra del Teatro Regio una straordinaria gamma di colori e sfumature. La concertazione, pur facendo risaltare ogni minimo dettaglio, non è mai scaduta nello sterile calligrafismo, ma ha al contrario ha dato prova di grande musicalità ed eccellente tenuta drammatica.
Dal punto di vista visivo il regista Marco Carniti aveva costruito uno spettacolo basato su una lettura antinaturalistica ed estremamente simbolica. Le scenografie altro non erano che delle quinte modulari che si spostavano sia in conseguenza all’evoluzione della storia, sia in base ai mutamenti emotivi degli interpreti. A questo contribuivano anche le luci estremamente mutevoli di Paolo Ferrari, che creavano un continuo caleidoscopio di colori.
Se dal punto di vista estetico alcune soluzioni erano di grandissimo effetto ed altrettanta suggestione, alla lunga il gioco risultava eccessivamente didascalico ed un po’ fine a sé stesso. La simbologia era a volte abbastanza ovvia ed alcune delle tante (forse troppe)  variazioni cromatiche si sarebbero potute evitare. Ciò non toglie che, se ci si lasciava trascinare solo dall’aspetto estetizzante, l’occhio ne risultava quasi sempre appagato.
In sostanza una produzione con molte frecce al suo arco che ha reso un buon servizio ad un titolo non frequentissimo nei nostri cartelloni.
Il pubblico che riempiva il teatro ha sancito il pieno successo dello spettacolo con punte di entusiasmo per Francesco Meli, ormai adottato a tutti gli effetti dal pubblico parmense.

Davide Cornacchione 2 maggio 2010