Recensioni - Cultura e musica

Čajkovskij e Rachmaninov sentinelle della cultura russa

La National Philarmonic Orchestra of Russia diretta da Vladimir Spivakov in un programma tradizionale al Settembre dell’Accademia

Cartoline dalla Russia. Campanili, cupole, isbe, paesaggi innevati. Una Russia senza tempo, color seppia, dalle atmosfere languide ed i contorni sfocati: scorci ed atmosfere tanto care al turista quanto fastidiose, nella loro semplicistica retorica tutta slogan ed automatismi, al nativo. Secondo appuntamento con “Il Settembre dell’Accademia” di Verona, quello dello scorso 10 settembre con la National Philarmonic Orchestra of Russia era per il pubblico scaligero l’incontro con la bandiera di un Paese. Strumentisti pescati dal Ministero della Cultura da ogni angolo di quello sterminato Paese e chiamati a diventarne ambasciatori nel mondo, cantori della sua anima più genuina, dipinta a tratto veloce. Per quella più torbida e viscerale, folle ed imprevedibile, si deve attendere lunedì 13 settembre l’arrivo di Valery Gergiev alla testa della gloriosa Mariinskij, gioiello dell’antica capitale d’Impero. Nel frattempo, per tutta la serata in cui anche l’impaginato glorificava – con Čajkovskij e Rachmaninov posti a sentinelle – il grandioso est, pungente era in noi la nostalgia della terza creatura nazionale, quella Filarmonica di Pietroburgo che sotto le dita di Yuri Temirkanov disegna orizzonti sonori come arabeschi, plasma emozioni disperate e lampeggianti, accende ricordi.

Una poesia che si fa lama di luce, malinconica e seduttiva, indimenticabile. L’abbiamo pensato, lo zar immenso e taciturno, per tutto lo scorrere di una Quinta Sinfonia di Čajkovskij in cui poco sembrava accadere dell’immensa drammaturgia che ne muove le acque. Nessun sussulto, niente trasalimenti, pochi tuffi al cuore. Sotto la bacchetta di Vladimir Spivakov – più mestiere che raffinata investigazione – la Quinta, groviglio di fatum, sibilline premonizioni, livide sentenze improvvisamente dissolte dall’aleggiare di valzer intrisi di struggente bellezza, era un gigante dal passo strascicato, seduto sulla sua stessa mole, un fiume arenato in una landa la cui distesa piatta toglieva pendenza, e quindi forza, al corso. Tutto fermo, statico, prevedibile.

Impressione non molto diversa, seppur attraversata da correnti (anche) opposte, quella avuta di fronte al celebre secondo Concerto di Rachmaninov, pagina inevitabile per ogni pianista dalle forti ambizioni. Qui, nel ruolo di solista era il diciannovenne Ivan Bessonov, talento cristallino e mani prodigiose, ma temperamento ancora troppo scalpitante e tentato dalle sirene di una lettura che, nonostante tante interessanti intenzioni, finiva per suonare più digitale che sinfonica, frammentata nella sua ampia arcata narrativa, pallidamente avvolta in una palette che un approccio di spolvero privava della necessaria profondità tanto nelle zone dei pianissimi – a partire da quell’inizio lontano, sibillino e già pronto a deflagrare – quanto in quelle delle sonorità più poderose. Eppure, tante erano le intenzioni che l’ascoltatore poteva cogliere sul fondo, soprattutto per merito dell’interprete: la ricerca di un “carattere”, il piglio spiccato nello stacco dei tempi, il tentativo di esplorare fraseggi preziosi. Una visione complessiva più lucida, meno altalenante tra improvvise vampate incendiarie ed altrettanto improvvise anse di calma piatta, più strettamente narrativa nel dar voce all’implacabile incalzare della tensione interna, avrebbe certamente valorizzato un approccio non privo di interesse. Ascoltato così, tutto suonava bello ma al tempo stesso sospeso, bidimensionale; da guardare senza poterci entrare. Come in una deliziosa casa di bambole. Un mondo restituito smorzato della sua divorante inquietudine russa. Per quella, occorre attendere, forse.