Talento poliedrico nel mondo della musica la regista, musicologa, autrice, docente racconta delle sue recenti esperienze
Regista, musicologa, autrice, docente. Il percorso di Stefania Panighini è un raro esempio di sintesi tra rigore ed estro, arte e scienza. Per lei, questo sembra essere un momento magico, costellato di progetti e di sogni finalmente esauditi. L’abbiamo incontrata per farceli raccontare.
Studi presso l’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D’Amico, un diploma al Conservatorio in Regia per lo spettacolo musicale, una Laurea in Musicologia. Quanto ha influito, nel compiersi della Sua cifra identitaria ma soprattutto delle Sue scelte, una formazione così sfaccettata e multiprospettica?
Ha influito moltissimo, la formazione di un regista d’opera necessita sicuramente di una base più tecnica (teatrale e musicale), ma poi spaziare dal teatro all’arte figurativa, dalla musicologia alla danza fino alla fotografia e all’antropologia, permette di affrontare i testi che arrivano in maniera più trasversale, offrendo spunti di lettura spesso inconsueti.
Recentemente, il Suo nome si è ulteriormente imposto grazie al clamoroso successo ottenuto dalla messa in scena della Turanda di Antonio Bazzini, opera di sorprendente bellezza e complessità, mai più eseguita prima d’oggi dopo il fiasco del 1867 alla Scala. Quali sfide impone il confronto con un autentico reperto di archeologia musicale come questo, sfuggente e ambiguo nella sua scrittura ibrida, figlia degli stessi anni del Don Carlo verdiano ma irrorata di elementi belcantistici, di echi sinfonici ammiccanti all’area tedesca, di deliziosi decorativismi?
Il mio mestiere è raccontare storie, e in questo caso la sfida era raccontare una storia per la prima volta! Una storia che viene da molto lontano nel tempo, ma che sicuramente profuma in particolar modo di un’epoca straordinaria del nostro melodramma, ovvero il secondo ottocento. Questo profumo era, per chi conosce l’opera, il profumo di casa, di un posto conosciuto e amato, ma al tempo stesso rappresentava una nota nuova, sconosciuta, che andava introdotta al pubblico con molta attenzione, perché il rischio dei ritrovamenti è che poi vengano nuovamente dimenticati. Dunque, la sfida era diventare il trait d’union tra l’epoca e la cultura di Bazzini e il mondo contemporaneo, che lo scopriva per la prima volta: mi sono messa in mezzo e ho cercato di tenere entrambi per mano!
Rimaniamo ancora un istante sulla Turanda. Qual è stata la chiave d’accesso per esaltarne la multiforme, sfuggente complessità senza cadere nella retorica da museo e senza venir risucchiati dall’incombente calco della ben più celebre Turandot pucciniana?
La chiave d’accesso è stata come sempre la drammaturgia musicale, quel linguaggio straordinario che fa dell’opera lirica un evento teatrale unico. Ho assecondato gli spunti drammaturgici di Gazzoletti e Bazzini, mi sono fidata e affidata a questa giovane donna che nel 1867 difendeva la propria libertà, gridava ai re di tutto il mondo di inginocchiarsi davanti a lei, e poi con grande franchezza (e non poco dolorosa scoperta), capiva che invece l’ascolto di sé e del proprio corpo trascina verso nuovi approdi che contemplano l’amore, la scoperta dell’altro e il compromesso del sé, per una più fruttifera visione del mondo. Il femminile a tutto tondo, quello vero, che talvolta vorremmo anche un po’ nascondere, viene fuori prepotente in Turanda: questo il motivo per cui la raffigurazione artistica dell’utero è stata il centro del progetto drammaturgico e dell’allestimento. Il convitato di pietra del nostro tempo!
In questi giorni, la Sua firma è attesa al Teatro Verdi di Pisa, nella regia di una prima assoluta: La Torre, opera in un atto su musica di Marco Bargagna e su soggetto di Marco Malvaldi, commissionata, con il contributo di Opera della Primaziale Pisana, Fondazione Pisa, Comune di Pisa, in occasione degli 850 anni del Campanile. Qual è stato il Suo approccio nel mettere in scena una drammaturgia ex novo, priva, cioè, di modelli e di storia? Da cosa è partita? Quali elementi, temi, aspetti ha voluto porre al centro?
Mi piace moltissimo lavorare con l’opera contemporanea, dialogare con i compositori, rapportarmi a un linguaggio spesso più vicino a me, al pubblico, e aprire nuovi percorsi artistici. In questo caso sono partita dal grande soggetto: la Torre di Pisa, che è un’icona del nostro paese, che è il centro drammatico di quest’opera, ma anche della vita di questa città. Cosa sono per noi i grandi “pezzi di storia”, che vediamo tutti i giorni sotto il nostro naso, cosa diventano nell’epoca della riproducibilità irrefrenabile, dell’immagine a tutti i costi: l’opera d’arte diventa qualcosa di personale, di nostro, che ha poteri emotivi diversi per ciascuno di noi. Ho voluto porre al centro, dunque, la relazione tra l’uomo e la torre, la danza erratica di questa signora di marmo, che fisicamente respira, si muove, si dilata e si restringe e vive sopra di noi, che abbiamo costruito la nostra storia intorno a lei.
Com’è stato lavorare con il direttore Carlo Boccadoro e con il suo Ensemble Sentieri Selvaggi? Da quali elementi siete partiti per dar vita e corpo a questo atteso omaggio al simbolo della città e alla sua straordinaria storia?
Lavorare con Carlo Boccadoro, che è grande conoscitore del repertorio moderno e contemporaneo, è sempre una vera risorsa. Quando si affronta una prima esecuzione, non ci sono riferimenti precedenti cui rifarsi, bisogna cercare di immaginare sulla carta cosa suonerà e come, proporre dinamiche e verificarne la tenuta, dialogare con il compositore e interrogarsi sempre su come far coincidere i tempi del teatro e quelli della musica. Un vero lavoro di creazione.
La Torre dialogherà, nella stessa sera, con il Poulenc surreale di Le bal masqué, cantata profana per baritono e strumenti su liriche di Max Jacob, un’altra prima assoluta in forma scenica. Qual è il filo che connette questi due pannelli nella Sua visione registica?
Bal Masqué è un vortice surrealista di rara bellezza, l’idea di Marco Tutino di accostarlo a La Torre era profondamente giusta, ma non mi era chiaro come. Quando non trovo la chiave per uno spettacolo la mia unica vera arma è ricercare, anche in ambiti lontani, perché sicuramente qualche tassello si allineerà: e così è stato. Sono partita dalla Torre, che per me era “solo” un monumento buffo, e ho studiato la sua storia nei secoli, a partire da Berta di Bernardo che con il suo testamento ci ha lasciato documentazione dei primi fondi per la costruzione, fino alle innumerevoli commissioni politiche del Novecento per mettere in sicurezza la pendenza, passando per personaggi come Galileo, Mary Shelley e Benito Mussolini. Per 850 anni la nostra civiltà ha danzato la sua trama sotto questa torre, e a vederla oggi non sembra altro che un gran ballo mascherato e surreale di epoche e umori. Ecco la chiave! Bal Masqué sarà una grande ouverture della Torre, un quadro surreale e fantasmagorico per introdurre la storia del campanile.
Oltre a quanto già esplorato, Lei è anche docente al Conservatorio di Como, dove rappresenta un indiscusso punto di riferimento nella formazione scenica dei giovani cantanti lirici. E, tra l’altro, il successo della Turanda trova le sue ragioni proprio nell’eccellente lavoro preparatorio svolto con l'orchestra e i solisti del Conservatorio. Il palco, dunque, se affrontato con un’autorevole guida alle spalle, può quindi diventare non solo un banco di prova ma, ancor prima, un formidabile laboratorio di crescita professionale per le leve emergenti?
Quando smetteremo di intendere il palco come un “formidabile laboratorio”, avremo perso! In ogni occasione il palcoscenico è maestro, lo è ancora per me ogni volta, ma per dei giovani talenti che studiano un mestiere artistico è fondamentale. La prova del pubblico e del palcoscenico è un boost di formazione, che non è ovviamente sostituibile a quello che si impara a lezione di tecnica, ma è tassello fondamentale per apprendere tutto quello che del mestiere artistico è difficile spiegare. C’è un sapere scenico che si può sentire solo durante lo spettacolo, quando c’è qualcuno in scena e qualcuno che guarda, come diceva Peter Brook: questo è quello che ritengo sia fondamentale insegnare ai miei ragazzi.
In passato, Lei ha curato progetti come Intrepidaria e Anomaliae, focalizzati sulla narrazione dipanata attraverso sguardi di donne e sull'attenzione alla parità di genere e alla fragilità. Questo Suo impegno autoriale si riflette nel Suo approccio registico con cui dà corpo e anima alle grandi figure femminili dell'opera? Penso alla stessa Turanda, ma anche a titoli come Traviata, Pagliacci, la Belle Helène, Tosca, fino ad Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill e a Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla.
Indago ancora sulla femminilità perché ogni volta che mi sembra di averla compresa, ne scopro pezzi che invece mi interrogano nuovamente. Il repertorio operistico tradizionale ha sicuramente raccontato molti aspetti del femminile, ma non tutto: quello che resta fuori mi attrae e rileggerlo, reinventarlo – come nel caso di Intrepidaria – non è solo un gioco stilistico. Io ho una figlia di dieci anni e sento forte la responsabilità di raccontare a lei, e a tutte le donne del futuro, la storia in modo diverso da come l’ho conosciuta io, con un occhio più attento a chi, di attenzioni, ne ha avute poche. Così come sento forte la responsabilità di agire in modo diverso nel mio mestiere, per mostrare alle nuove generazioni che non dobbiamo necessariamente assomigliare agli uomini, quando ricopriamo ruoli di leadership che sono sempre stati maschili. Possiamo dar voce al nostro sentire, al nostro modo di intendere gerarchie e relazioni ed essere autorevoli e forti, senza doverci rifare a modelli maschili. Siamo ora noi, i modelli del futuro.
Nel corso di questi intensi primi vent’anni di carriera che l’hanno vista protagonista, tra l’altro, di importanti debutti in Asia e in America, ha sempre manifestato una predilezione per l’esplorazione di un repertorio ricercato e di grande complessità tra cui, oltre ai titoli già citati, spiccano l'Orlando di Händel e il raro Kaiser Von Atlantis di Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien. Qual è, a Suo avviso, lo stato dell’arte in cui versa la regia d’opera italiana nel panorama internazionale? In questo senso, quale ruolo può giocare la commissione di nuove opere come La Torre per mantenere vivo un linguaggio e un universo espressivo come quello del teatro d’opera?
Credo che abbiamo un po’ relegato il linguaggio dell’opera al museo, lo facciamo e rifacciamo, quasi lo violentiamo talvolta, perché ci dica cose nuove, ma non abbiamo ancora capito che per infondere linfa vitale (e nuovo pubblico) al teatro d’opera dobbiamo scrivere nuove opere. L’attenzione alle nuove opere, a soggetti che parlino del nostro mondo è pressoché nulla rispetto al panorama europeo e mondiale. Ci ripieghiamo indietro, senza slanciarci avanti: abbiamo bisogno di nuovi testi, di nuova musica, di compositori e librettisti, di vita e fermento! Solo così le nostre care vecchie rassicuranti Traviate acquisiranno prospettive diverse.