Recensioni - Cultura e musica

Bologna: Da Jeunhomme a Jupiter, l'eccelso Mozart di Lonquich

Il pianista tedesco in una meditata lettura dei capolavori mozartiani per la rassegna dell'Estate del Bibiena

Orchestra e pianoforte in una platea orfana di poltrone, pubblico rigorosamente distanziato, nei palchi e sulla scena vuota. Al Comunale di Bologna, anche gli spazi e i ruoli si sovvertono in nome delle norme anti Covid, e “L’Estate del Bibiena” continua a srotolare la sua avvincente tela nello scenario di un’atmosfera tipicamente tardo-settecentesca. La musica al centro, con il ritorno leggermente alonato di un’acustica abbondante che farà forse storcere il naso ai predatori di perfezione, ma che certo regala all’ascolto un’inedita, amabile colloquialità. Lo scorso 18 luglio, il nono appuntamento della rassegna che si chiuderà il prossimo 2 agosto ci chiamava a sé come un magnete, ancor più forte nella sua forza catalizzatrice dopo mesi di imposto silenzio. Alla guida della TCBO, nel doppio ruolo di direttore e solista, era Alexander Lonquich, artista assoluto quanto da sempre refrattario a lasciarsi catturare e addomesticare dagli schemi del business concertistico.

Troppo spregiudicatamente autentico, visionario, intransigente verso tutto ciò che non sia un approccio totalizzante verso il mestiere del musicista: fatto di ricerca, innanzitutto, di instancabile, onnivora curiosità a conoscere e ad apprendere, di disponibilità ad accogliere in ogni momento punti di vista anche diversi dal proprio per ponderarne il valore. Una statura culturale, nel senso più ampio, capace di effettuare in diretta operazioni a cuore aperto sulla frase, sull’articolazione, sul colore, come se la pagina nascesse lì, sotto le sue mani, e che lì trovasse senso ed autorevolezza. Una pagina che nessuna esecuzione potrebbe mai omologare: viva e guizzante, lapidaria e ruvida quando necessario, figlia dell’istante come lo è la vita, mai uguale a se stessa. Capace di una libertà sconfinata e mai indebita, indifferente alla trappola della seduzione. Potremmo trascorrere sera dopo sera ad ascoltarlo senza mai avere la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di già sentito, o di qualcuno che reciti a soggetto. Gli altri sono esecutori, lui è un interprete. Capace di farti dimenticare che il suono scaturisce da una fisicità, da un gesto, in quanto il suo gesto è esso stesso musica: smaterializzato, da subito evocativo, danzante sulla tastiera come in un ideale liquido amniotico. Nessun orpello, nessun vezzo. Solo ciò che serve, e che basta a raccontare frammenti di assoluto ogni volta spiazzanti, inquietanti, oltre che a rendere inutile, se non ridicolo, tutto il resto.  Nelle passate edizioni del mantovano festival “Trame Sonore” l’abbiamo seguito e inseguito esibirsi anche cinque, sei volte in un unico giorno, con programmi sempre diversi, ed abbiamo assistito quasi increduli alla sua capacità di ricaricarsi suonando, senza mai cedere alla stanchezza, o – pericolo ben più insidioso – ad una pur ragguardevole routine. Suonare sembra essere per lui atto vitale, imprescindibile, una necessità primaria che ribadisce l’esistere.

Nato a Treviri nel 1960 e consacrato, appena sedicenne, al concorso “Casagrande” di Terni nel 1986, Lonquich ama, quando possibile, sovrapporre direzione ad esecuzione; un modo per abbracciare sotto un unico sguardo la visione poetica e creativa dell’autore, raggiungere fino all’essenza primigenia la sua voce. Così è stato a Bologna, alla testa di una TCBO bravissima ad assecondarne l’incessante pungolo di ogni sollecitazione. Su leggio, a torreggiare erano due capisaldi scritti da Mozart rispettivamente nel 1777 e nel 1788. Undici anni di distanza a separarli nel rincorrersi delle due cifre finali. Poca cosa in una vita normale; un’eternità per un’esistenza di poco più di 35 primavere. Da un capo del filo, il Concerto K 271 “Jeunehomme” in Mi bemolle maggiore; dall’altro la Sinfonia K 551 meglio nota come “Jupiter”, ultima del catalogo mozartiano. A loro modo, due pietre miliari di una produzione febbrile e prodigiosa, due punti di svolta di un linguaggio che qui sembra raggrumare lezioni ed intuizioni, in una geniale, sconcertante arte combinatoria tra passato e futuro. Già nel Concerto, dall’attacco rappreso in un motto pomposo dell’orchestra subito contrappuntata dall’intervento, a ruota, del pianoforte, Lonquich sembrava dichiaratamente teso ad accompagnare l’ascoltatore attraverso le cesure, le impercettibili crepe che Mozart dissemina sotto la pelle di geometrie olimpiche.

La lente era là dove qualcosa di inedito succede, dove, a sorpresa, palpita la voce del compositore, personale come mai lo era stata prima d’ora. Un’interiorità sfuggita al pennello del pittore che usciva dal quadro e, dal calco immacolato disegnato con infallibile perizia da Carl Philip Emmanuel Bach, prendeva le mosse per andare oltre: parola, confessione, come nella cartolina sublime dell’Andantino centrale finalmente scandito in tre quarti, lancinante nel respiro tragico degno del canto di un’Euridice, del pianto di una Didone abbandonata, eppure, capace di non affossarsi nelle sabbie mobili del suo cielo plumbeo, del suo passo strascicato. Uno sguardo sull’abisso, senza indulgenza alcuna. O di farsi gioco acuto ed arguto, pericolosamente condotto in punta di fioretto, a sparigliare ancora una volta le carte come nel Rondò finale: un indiavolato perpetuum mobile dallo spiccato tratto virtuosistico nel quale, a sorpresa, affiorava trasfigurato il minuetto centrale come un surreale, impettito miraggio. Il più bel Jeunehomme mai ascoltato, capace di fermare il tempo e di regalare nello spazio metafisico di un Comunale adattato al distanziamento da Covid un frammento di eternità, un assaggio di teatro del mondo. L’orchestra nel pianoforte, e viceversa: figlia dello stesso gesto, dello stesso sguardo, persino del medesimo impasto sonoro, anche la Sinfonia K 551 – miracolo di equilibrio tra fasto ed austerità, seppur scritta in uno dei momenti più drammatici dell’esistenza di Mozart - dipanava il suo mirabile arazzo attraverso una lettura orientata a scoprirne insieme le strabilianti trame in cui il magistero del compositore nasconde elementi inediti: l’ardita, a tratti accecante ricerca contrappuntistica, la sottile ambiguità dei suoi mezzi sorrisi tutti garbo e feroce ironia, la sperimentazione armonica scaturita in un edificio polifonico così complesso da disorientare l’ascoltatore in cerca di riferimenti certi. Da ultimo, la tensione a tratti estrema verso arcate e tessiture sinfoniche mai osate prima che solo nel finale si scioglie in una salvifica tregua, prima dell’apoteosi finale. Maestro del colore, Lonquich, così come dei silenzi, tremendi. Di una drammaturgia spinta sull’orlo, là dove si spalancano dirupi. Tra lui e l’orchestra, un invisibile ma palpabilissimo cerchio di energia pura, a regalare fiammate di abbagliante bellezza. Mozart, per antonomasia l’autore più pericoloso, il più intimamente selvatico sotto le movenze di una ruffiana docilità, ha bisogno di un giocoliere esperto come Lonquich per non cadere nello stucchevole, nell’inutilmente decorativo. Qualcuno che regga il passo del suo sguardo mobile ed impietoso sull’animo umano. Una mente colorata, altrettanto agile e duttile da suonare da direttore e dirigere da pianista.