Il lungo monologo è in affinamento, ma non convince fino in fondo
Al Teatro Sociale di Mantova è andata in scena l’anteprima del nuovo lavoro di Stefano Massini, ovvero Donald. Lo spettacolo ricalca e mette in scena l’omonimo libro dell’autore, che monologa per quasi due ore accompagnato da quattro musicisti. È una produzione del Teatro della Toscana, di cui Massini è direttore, in collaborazione con il Piccolo di Milano e il Teatro di Bolzano.
Si tratta sostanzialmente di un lungo monologo, in cui Massini interpreta sé stesso. Racconta per episodi e aneddoti la vita e l’ascesa dell’attuale inquilino della Casa Bianca, fino al momento in cui, oberato da debiti, fallimenti e altre vicissitudini, decide di darsi alla politica.
Stefano Massini dimostra di avere una buona tecnica attoriale e di saper tenere il palcoscenico in modo preciso e puntuale. L’attore è sicuro, disinvolto, convincente. I passaggi sono accurati e ben studiati. Certo il tutto manca ancora di scioltezza, ma, essendo un’anteprima, immaginiamo migliorerà con le repliche. La storia è narrata avvalendosi della bella scena di Paolo di Benedetto: una serie di cubi a diversi livelli da cui escono cartelli con le scritte delle varie imprese di Donald. Sullo sfondo si eleva ad un certo punto addirittura un grattacielo. Il tutto scompare nel finale, nel momento dell’apparente fallimento che porterà alla scelta dell’agone politico. Molte imprecisioni nelle luci, progettate da Manuel Frenda, evidentemente ancora non a fuoco nella serata mantovana.
Il testo non convince appieno. La critica non è mai diretta, bensì implicita. Infatti l’intento è quello di limitarsi al racconto della vita di Donald. Racconto che, per contrasto, dovrebbe assurgere ad “exemplum” di prevaricazioni, pochezze e malefatte da cui ognuno dovrebbe trarre le dovute riflessioni e i conseguenti insegnamenti. L’intento è chiaro, ma il risultato sembra sfuggire di mano a Massini, tanto che la critica rischia a volte addirittura di sfociare in una involontaria apologia del “self made man”. Le parti migliori sono quelle più aneddotiche relative all’infanzia, dove l’autore riesce a infondere quella ironia che sostanzialmente manca al racconto e alla messa in scena. Il pubblico infatti ride molto poco e lo spettacolo risulta troppo serioso, sfociando a volte nella lezione.
La costruzione per episodi è più televisiva che teatrale, con tanto di musica e buio alla fine di ogni parte, trito e banale espediente per “chiamare” l’inevitabile applauso. Bravi i musicisti - Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa – che fanno il loro mestiere. Alla fine lo spettacolo è troppo lungo, 1 ora e 45 minuti, e, nel complesso, annoia. Ciò che può funzionare a spezzoni televisivi o come podcast non è detto che convinca a teatro.
Buon successo nel finale.
Raffaello Malesci (Domenica 12 Ottobre 2025)